di Francesco Giubileo e Francesco Pastore

All’orizzonte si prospetta una ristrutturazione dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal), ma la nuova governance dell’ente, così come il suo difficile rapporto con le Regioni, rischiano di risultare del tutti ininfluenti ed irrilevanti rispetto alle nuove sfide del mercato del lavoro dovute alla rivoluzione digitale in corso.

Una nuova Agenzia: nuova governance e conflitto di competenze tra istituzioni

L’idea di fondo è quella di riorganizzare l’Anpal ispirandosi al modello dell’Agenzia delle entrate, dunque con un direttore generale, senza un Cda di riferimento, che risponda direttamente al ministro competente. A seguire, si procederà alla creazione della direzione delle Politiche attive presso il ministero del Lavoro, per riportare le funzioni di indirizzo e coordinamento dentro il dicastero.

Insomma, la riforma riporterà l’organizzazione delle politiche attive a prima del Jobs Act, dove era presente una struttura ministeriale e il suo braccio operativo era Italialavoro, oggi rinominata Anpal Servizi. Quest’ultima risponde direttamente al ministero del Lavoro (prima era amministrata dal presidente di Anpal), ma non è chiaro se l’idea è quella di avere due Agenzie (Anpal ed Anpal Servizi) oppure far confluire il tutto in un’unica Agenzia, operazione tutt’altro che facile, dato che Anpal Servizi ha una struttura giuridica diversa da quella della pubblica amministrazione. Sarebbe necessaria una sorta di “sanatoria” dei dipendenti di Anpal Servizi, sull’esempio di quanto realizzato per i docenti precari del Miur. Si tratterebbe di un processo di relazioni industriali molto complicato e dalla difficile (quasi impossibile) realizzazione.

Nonostante le molteplici difficoltà, da un punto di vista organizzativo, il progetto è migliorativo dell’attuale situazione, ma assieme al nodo della governance, si dovrebbe affrontare anche un secondo ostacolo: il rapporto con le Regioni. Nella precedente legislatura, il governo Gentiloni ha legittimato il ruolo delle Regioni, attribuendo a loro pieni poteri di gestione dei Centri per l’impiego e delle Politiche attive del lavoro, assegnati in precedenza alle Province. Ad eccezione della Regione Lombardia, dove la competenza rimane in capo alle Province, molte Regioni hanno costituito le loro Agenzie regionali creando nei fatti ben venti modelli organizzativi diversi e causando di conseguenza una certa difficoltà nel coordinamento tra Stato e Regioni. Il problema è che tale sistema è ormai consolidato, la stessa “razionale” idea di riportare in capo allo Stato le competenze in termini di Centri per l’impiego e di Politiche attive del lavoro rischia di essere un processo estremamente lungo (al massimo si potrebbe parlare di Commissariamento di alcune Regioni), che richiederebbe anche una riforma costituzionale. A ciò si aggiunga che alcune realtà regionali, come Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Emilia Romagna, Toscana e Veneto hanno creato modelli innovativi di erogazione dei servizi, anche se manca ancora una valutazione indipendente nazionale da parte dell’Istituto nazionale per l’analisi delle Politiche pubbliche (Inapp) dei vari programmi regionali, per comprendere a pieno l’efficacia nella ricollocazione degli utenti.

Intanto, la sfida più importante proviene dallo tsunami digitale

Esiste oggi in Italia una piattaforma del lavoro, si chiama Indeed, che genera i seguenti numeri: 12 milioni di visitatori e 120mila vacancy al mese, un sistema del genere ha una capacità di dieci (forse venti) volte superiore di tutte le App lavoro pubbliche regionali messe insieme. Chiunque sta leggendo questo post, basta che avvii una ricerca di lavoro su Google e le prime opportunità di lavoro che gli appariranno saranno probabilmente proprio quelle pubblicate da Indee, che copre quasi il 70% del mercato delle piattaforme digitali di incontro fra domanda e offerta di lavoro (da non confondere con le piattaforme della Gig Economy). Si tratta di colossi internazionali, come Linkedin, InfoJobs e Monster che durante il lockdown, insieme alle autocandidature, sono diventati il principale canale di ricerca del lavoro online e il principale canale di reclutamento per le imprese sopra i 15 dipendenti.

In altre parole, la prima azione compiuta da un disoccupato alla ricerca di un lavoro è quella di cercare lavoro su queste piattaforme. Un problema per i disoccupati è che tra quei 12 milioni di visitatori la netta maggioranza è costituita da occupati. Il mercato digitale ha polarizzato le figure professionali. Cercare lavoro è diventato molto facile, mentre trovarlo è diventato molto più difficile, soprattutto per i soggetti più svantaggiati perché si trovano in concorrenza con i “precari” dei contratti a termine e con gli occupati desiderosi di cambiare lavoro.

Il rischio è che, seppur formati dai centri per l’impiego, i più svantaggiati (in termini di genere, presenza di carichi familiari, disabilità, età o mancanza di esperienza) rischiano di fare molta, molta più fatica. La creazione di App Lavoro nazionale da inserire all’interno della piattaforma Io avrebbe costi di realizzazione assolutamente sostenibili ed andrebbe certamente perseguita come strumento per migliorare il ruolo dell’attore pubblico nell’attività di incontro fra domanda e offerta.

Tuttavia, raggiungere e gestire numeri come quelli, per fare un esempio tra i più significativi, di Indeed in brevissimo tempo richiederebbe uno sforzo finanziario, comunicativo e di gestione enorme, ben oltre i cento milioni di euro e inoltre al momento l’attore pubblico non ha le competenze commerciali per acquisire aziende fidelizzate con le piattaforme come Indeed o Monster. Riteniamo pertanto che sarebbe opportuno affiancare all’App lavoro tre interventi, quali:

1. la creazione da remoto dei cosiddetti “facilitatori digitali” (potrebbero essere i Navigator se fossero assunti a tempo indeterminato e adeguatamente formati) che aiutino i più svantaggiati ad utilizzare le piattaforme, gestire un colloquio online (anche in differita), sostenere colloqui con assistenti virtuali;

2. la certificazione di competenze dei soggetti più svantaggiati, volta a valorizzare le loro abilità e conoscenze in ambito formale e informale;

3. un “quasi-mercato” dei servizi digitali. Non parliamo di come iscriversi alle piattaforme. Quelle sono commodity a carico dell’attore pubblico, ma piuttosto si intende la creazione di fiere virtuali dedicate a specifici target, lo sviluppo un personal brending per sponsorizzare determinati profili, l’utilizzo di un Job Scanner delle vacancy per agevolare la ricerca online e ancora lo sviluppo di servizi che probabilmente oggi neppure immaginiamo.

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