A volte il successo sportivo è come un tappeto: utile per nasconderci sotto la polvere. Quando però viene a mancare, salta fuori tutto. È il caso del rapporto tra calcio e multiculturalismo in Svizzera, paese che rimane diviso in due anime. Da un lato gli autoctoni, a loro volta separati da divisioni linguistiche e culturali, dall’altro i “secondos”, così come sono chiamati gli svizzeri di seconda generazione, con almeno uno dei propri genitori provenienti da un paese straniero. È noto come la nuova dimensione raggiunta dalla nazionale svizzera negli ultimi anni, con la presenza pressoché costante alle fasi finali dei grandi tornei (Euro 2012 l’unica eccezione), sia frutto della progressiva ibridazione della cultura calcistica locale con elementi esterni a essa, il tutto strutturato attraverso politiche giovanili di alto livello. Una volta il giornalista olandese Humberto Tan scrisse che “senza l’apporto della colonia del Suriname, il calcio olandese probabilmente sarebbe assomigliato a quello tedesco”. Oggi nemmeno il calcio tedesco è più “tedesco”, quantomeno nell’accezione utilizzata da Tan, ma il concetto è chiaro e vale anche per la Svizzera, nonostante quest’ultima non abbia mai avuto colonie.

Sono passati vent’anni da quando un giocatore di colore ha indossato per la prima volta la casacca rossa della Nati. Era il 2 settembre 2000 e, per la prima giornata di qualificazione al Mondiale 2002 contro la Russia, sul lato destro della difesa schierata dall’argentino Enzo Trossero prese posto Badile Lubamba. Nel corso della gara sarebbe stato sostituito dal connazionale Blaise Nkufo, stesso doppio passaporto, identiche radici congolesi, medesimo luogo di nascita (Kinshasa). Due anni dopo Nkufo sarà protagonista di un j’accuse che inizialmente sembrò passare inosservato. “Non mi fanno giocare perché sono nero”, disse lasciando il ritiro della nazionale. Parlò di razzismo strisciante in un “gran bel paese in cui vivere, ma nel quale da immigrato agli inizi ho avuto difficoltà. Del resto, a differenza di stati quali Germania, Olanda o Francia, la Svizzera non ha mai avuto colonie, pertanto la popolazione è meno abituata alla convivenza con altre razze. E alcune persone preferiscono avere un buon nemico piuttosto che un buon amico”. Ma Nkufo non era uno calciatore qualunque, specialmente a livello di preparazione. Leggeva libri di filosofia, politica, sociologia e teologia, in particolar modo quelli di Jean Ziegler, sociologo e politico svizzero autore di numerosi saggi su temi quali la povertà e gli abusi dei sistemi finanziari internazionali. Una testa pensante le cui parole erano destinate a lasciare il segno. Nkufo in nazionale è tornato cinque anni dopo, quando la Svizzera stava gettando le fondamenta di un nuovo ciclo che, partendo dalla vittoria del Mondiale under-17 del 2009 e arrivando al secondo posto all’Europeo under-21 del 2011, prosegue ancora oggi.

Al mondiale brasiliano del 2014 la Svizzera vantava il maggior tasso di cosmopolitismo tra le selezioni presenti, con 21 giocatori che avevano legami con l’estero (per nascita, genitori o nonni). Quando Lubamba debuttava nella Nati, i suoi compagni di squadra si chiamavano Pascolo, Henchoz, Müller, Sforza, Vogel, Magnin. Nella selezione di Hitzfeld la componente franco-italo-germanica dei cognomi era in netta minoranza. Abbiamo imparato tutti a conoscerli: Shaqiri, Xhaka, Seferovic, Rodriguez, Inler, Mehmedi, Dzemaili, Gavranovic, Gelson Fernandes. I “secondos” erano il motore della nuova Svizzera. Fabien Ohl, sociologo dello sport all’Università di Losanna, sintetizzò così il fenomeno: “In molti altri paesi il calcio è lo sport per eccellenza. In Svizzera è invece in concorrenza con l’hockey su ghiaccio e lo sci. Questi sport costano molto di più e tra gli svizzeri sono molto radicati dal punto di vista dell’identità. Non sono quindi di facile accesso per gli immigrati, che optano piuttosto per il calcio, considerato il miglior modo per raggiungere il successo e ottenere riconoscenza sociale”. Ma, pur essendosi posizionata stabilmente ad un livello superiore, nei grandi tornei la Nati non è mai riuscita ad andare oltre i propri limiti. La mancata corrispondenza tra le ambizioni rinnovate dall’innalzamento dell’asticella, e i risultati ottenuti sul campo nei momenti decisivi, ha mandato in frantumi la narrazione della squadra multietinica che ha saputo integrare e naturalizzare, in tutti i sensi, i figli degli immigrati.

La Svizzera non ha compiuto l’exploit né a Euro 2016, né al Mondiale 2018. Nel primo caso si parlò di “Balkan-Graben”, termine con il quale veniva indicata una spaccatura in seno alla nazionale tra gli elementi di origini balcaniche e il resto dei giocatori. L’Europeo vide oltretutto la Svizzera incrociare l’Albania e fu quasi un derby, visti visti i legami tra i due paesi, iniziati negli anni Sessanta con un accordo stretto tra Berna e Belgrado per la gestione dei flussi migratori dall’allora Jugoslavia. C’erano sei elementi della Svizzera di origini albanesi (Mehmedi, Dzemaili, Tarashaj, più i kosovari Behrami, Shaqiri e Xhaka) e altrettanti dell’Albania nati e cresciuti in terra elvetica (Abrashi, Ajeti, Basha, Gashi, Veseli, Xhaka). Quello di Granit (Svizzera) e Taulant (Albania) Xhaka fu il primo caso e finora unico caso nella storia dell’Europeo di fratelli in campo da avversari. Anni prima ai Mondiali ci furono Jerome e Kevin-Prince Boateng in Germania-Ghana, ma il legame degli Xhaka, entrambi figli degli stessi genitori, era ancora più profondo.

La spaccatura “balcanica”, ammessa dallo stesso c.t. Vlado Petkovic (“i problemi capitano anche nelle migliori famiglie, ma si risolvono in casa”), ha raggiunto il suo punto di non ritorno due anni dopo al Mondiale russo quando, contro la Serbia, Xhaka e Shaqiri, assieme a Lichtsteiner, esultarono mimando l’aquila bicipite a mo’ di provocazione. L’eliminazione agli ottavi contro un avversario alla portata come la Svezia ha rotto la diga mostrando un paese diviso, nervoso, pieno di contrasti. Se l’ex nazionale Stephane Henchoz aveva parlato delle responsabilità di un capitano, “che deve rappresentare la squadra e il Paese, e Xhaka non lo fa”, ci pensò il segretario generale della Federcalcio svizzera Alex Miescher a sganciare la bomba, chiedendosi se la politica del doppio passaporto fosse ancora desiderabile. “Vengono fatte tante promesse”, dichiarò al Tages Anzeiger, “ma poi, dopo l’under-21, i ragazzi scelgono un altro Paese in quanto vedono più opportunità di crescita a livello internazionale. I costi per la loro formazione sono altissimi, e se uno decide di rappresentare un’altra nazione, sono soldi sprecati”. Parole che hanno incendiato l’opinione pubblica provocando le dimissioni di Miescher, a cui oltretutto fu fatto notare che solo tre giocatori di livello (Mladen Petric, Zdravko Kuzmanovic e Ivan Rakitic) avevano “tradito” il paese in cui erano cresciuti per scegliere quello delle proprie origini. Ma ormai il tappeto era stato rimosso. Anche perché la forzatura populista sulla presunta assenza di un sentimento autentico verso la maglia rossocrociata da parte dei “secondos” proveniva da una delle massime cariche istituzionali.

Dalle macerie federali del 2018 si è arrivati a oggi, con Petkovic ancora in sella nonostante le critiche (alcune incredibili, considerando che è stato il primo c.t. della storia a qualificare la Nati a tre grandi tornei consecutivi). Sono rimaste sia le ambizioni, sia soprattutto l’ormai classica Svizzera dalle mille radici, che dai Balcani viaggiano nel continente africano (Mvogo, Mbabu, Akanji, Fernandes, Lotomba, Sow, Embolo) toccano i Caraibi (Vargas, che da parte materna ha pure origini italiane) e, passando per la Spagna (Benito), ritornano nei Quattro Cantoni. Embolo, uno dei giocatori di maggior qualità, tempo fa rifiutò il Camerun per ragioni politiche. Lo ha raccontato il giornalista Jean Claude Mbede. “Prima del suo gol al Ludogorets in Champions nessuno in Camerun conosceva Embolo, nemmeno la stampa. Ma il suo exploit è arrivato dritto fino al palazzo presidenziale, dove il capo di stato (dal 1982, nda) Paul Biya è di etnia Bulu, mentre Breel è al contempo Eton e Ewondo. Le tre tribù fanno parte della stessa famiglia, Beti. Il potere spesso tocca queste corde quando vuole ottenere qualcosa, ed Embolo sarebbe stato un testimonial straordinario. Ma la famiglia di Breel non ha la memoria corta, anzi, e si è ricordata diversi esempi di giovani calciatori formati in Europa, a cui la federazione camerunense aveva promesso di professionalizzare il calcio in Camerun, senza però mai averlo fatto davvero”. Embolo è il più grande spot a favore dei “secondos” che uno svizzero non di prima generazione può offrire. Ma, senza un buon Europeo, molto probabilmente servirà a poco.

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