Per uno di quegli incroci, solo superficialmente casuali, che entrambi amavano esplorare come squarci di possibile significato ulteriore nella trama dell’esistenza, la data odierna unisce nel ricordo due moderni maestri della meraviglia: Gilbert Keith Chesterton e Jorge Luis Borges, entrambi scomparsi il 14 giugno (il primo nel 1936, il secondo a cinquant’anni di distanza).

Dico superficialmente casuali proprio in omaggio agli autori.

Il primo, infatti, scrisse: “C’è nella vita un elemento di magica coincidenza che può sfuggire alla gente che bada solo all’aspetto prosaico delle cose. Come è stato ben espresso dal paradosso di Poe, la saggezza dovrebbe contare sull’imprevisto.”. Il secondo sancì, in una sua memorabile conferenza su Dante: “… ciò che chiamiamo caso è la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità”.

E parlando di Dante, non possiamo non omaggiare in Chesterton un grande erede dell’unità culturale del Cristianesimo medievale, che sola poteva partorire un capolavoro allegorico così complesso e, per alcuni aspetti, definitivo come La Divina Commedia.

Diciamolo subito: Chesterton fu molto di più che il creatore dei, pur stupendi, Racconti di Padre Brown. Ci limiteremo a menzionare solo alcune opere della sua vasta produzione, ricchissima per varietà e valore.

Polemista acceso (indimenticabili le sue battaglie dialettiche con l’amico e rivale George Bernard Shaw), poeta dalle visioni ardenti (ricordiamo La ballata del cavallo bianco e Il cavaliere pazzo), pensatore dalla logica rigorosamente paradossale (ad esempio nella deliziosa raccolta I paradossi di Mr.Pond), autore di romanzi e racconti traboccanti stupore (oltre ai racconti citati, L’uomo che fu Giovedì e Il Napoleone di Notting Hill, fra gli altri) come di saggi teologici colmi di sapienza (le monografie su William Blake, S.Francesco, S.Tommaso d’Aquino accanto ai più celebri Eretici e Ortodossia) amante dei piaceri della vita fino a sfiorare la santità (per anni si è addirittura proposto l’iter di canonizzazione!), guardiano dell’ortodossia cattolica che amava farsi immortalare da Bacco, Chesterton fu un uomo adorabilmente eccessivo, in tutto: nella mole, nella fede, nella prolificità, nell’umorismo, nell’amore per la semplice bellezza della vita.

Proprio di lui, Borges scrisse: “Il più celebre dei suoi romanzi ‘L’uomo che fu Giovedì’, ha come sottotitolo ‘Un incubo’. Avrebbe potuto essere Poe o magari un Kafka; lui comunque preferì- e gli siamo grati della scelta – essere (…) la gente persiste nel ridurlo ad un mero propagandista cattolico. Innegabilmente lo fu, ma fu anche un uomo di genio, un gran prosatore e un grande poeta. La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessun scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton”.

Se Chesterton celebrò per tutta la vita la bellezza miracolosa del quotidiano, per alcuni versi, non c’è figura più distante da tale sguardo che quella di Borges: lo scrittore argentino, sommo erudito, fu un creatore di mondi labirintici, esploratore di realtà parallele, ribaltatore di prospettive, moltiplicatore di specchi e indagatore esoterico delle pieghe più recondite delle possibilità del pensiero.

Eppure, qualcosa di profondo lega i due grandi scrittori, al di là delle coincidenze anagrafiche.

La fascinazione del grande scrittore argentino per il vulcanico genio britannico è, infatti, da un lato comprensibile (i due condividono come temi portanti della loro ispirazione il senso della meraviglia e il culto del paradosso), dall’altro spiazzante: se Chesterton è un fiero cattolico, Borges era un ateo in ricerca, attraversato da inquietudini gnostiche; se il primo fu definito defensor fidei da Pio XI, il secondo era un cultore indomito delle vertigini dell’eresia (pensiamo a Tre versioni di Giuda nella sua raccolta di racconti più celebre, Finzioni): quanto il genio inglese fu un cantore della semplicità e della serena contemplazione dell’esistenza, tanto quello argentino cercò instancabilmente nelle visioni oniriche, nei viaggi mentali, nelle metafore dello specchio, del doppio e del gioco una fuga dalla prigione ontologica dell’esistenza, quella che gli gnostici identificavano con la Caduta.

Non a caso in una celebre frase di Borges si coglie l’eco dell’antica tradizione eretica: “La terra che abitiamo è un errore, una incompetente parodia. Gli specchi e la paternità sono abominevoli perché la moltiplicano e l’affermano”.

Forse, nell’equilibrio fra queste due visioni, tra stupore e contemplazione del mistero, giace quella che convenzionalmente chiamiamo “verità”.

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