Durante questi lunghi mesi di pandemia sono andate moltiplicandosi le polemiche che riguardano i grandi assembramenti di persone. Viali affollati per fare shopping, gente stipata per bere qualcosa, improbabili code per aggiudicarsi un gadget. Se una parte dell’opinione pubblica ha bollato questi atteggiamenti come superficiali e poco responsabili, un’altra, altrettanto nutrita, ha usato toni meno benevoli.

Le raccapriccianti scene dei centri commerciali presi d’assalto (ben prima dell’attuale emergenza sanitaria) sono tristemente note: fiumi di gente invasata che spintona, lotta e si malmena per acquistare un telefono o un paio di scarpe. Uomini che rotolano sotto le serrande per guadagnare posizioni, donne che strappano giocattoli dalle mani dei bambini, anziani che assaltano i commessi per un telefono. Atteggiamenti allucinanti che, sebbene non rappresentino la norma, durante una pandemia avremmo preferito non vedere neppure in versione ridotta. Rischiare infatti di ammalarsi e di infettare altri per accalcarsi nei viali dello shopping, nelle serate di movida, in feste segrete (o picchiandosi per noia) sono immagini che perfino l’autore di Idiocracy o de I Griffin considererebbero di cattivo gusto. Attività pretese come un diritto, mentre morivano intubate centinaia di persone al giorno.

La frustrazione e lo sdegno che questi comportamenti hanno suscitato in larga parte dell’opinione pubblica sono più che comprensibili; tuttavia il timore è che la rabbia (per quanto giustificata) generi solo altra materia oscura per il vorace buco nero dell’odio. D’altro canto, stigmatizzare questi comportamenti con eccessivo distacco (un po’ come se la cosa riguardasse un’altra specie) sembra una comoda strategia per esorcizzare il problema, confinandolo là dove ci dà meno fastidio. E così, se odiare e giudicare non c’è forse d’aiuto, possiamo almeno cercare di capire, affrontando la questione senza troppi pregiudizi o schemi mentali da tifo domenicale.

1) La prima riflessione riguarda il fatto che la società dei consumi possa aver trasformato, progressivamente ma inesorabilmente, i cittadini in consumatori. Una volta che questa metamorfosi (soprattutto nelle nuove generazioni) è compiuta, non sembra assurdo ipotizzare che il consumatore viva il consumo stesso non più come uno svago, ma come un diritto. Fino a qualche decennio fa, se ben ricordate, si parlava di diritti del cittadino. Da qualche anno si parla invece apertamente di diritti del consumatore. E allora, se la figura del cittadino si è finalmente eclissata in favore di quella del consumatore, chiedere alle persone di non consumare non significa più solo chiedergli di non uscire a fare shopping. L’equivalente, rapportato al recente passato, sarebbe potuto essere quello di impedire alle persone di manifestare o scioperare liberamente.

Trent’anni fa, a ben pensarci, nessuno si sarebbe sentito leso nei propri diritti perché inibito ad andare dal parrucchiere o a compare delle scarpe; è molto più probabile che si sarebbe sentito minacciato nelle proprie libertà personali se gli avessero proposto di girare con un GPS in tasca… Chiedere di non consumare, oggi, significa inibire una funzione primaria, la sola rimasta a molte persone, imponendogli di rinunciare alla principale gratificazione che motiva quasi tutti i loro sforzi. Non si tratta di giustificare comportamenti inqualificabili, ma di leggerli in modo meno superficiale di quanto non avvenga sistematicamente. Da un lato la semplificazione estrema (la gente è cretina), dall’altra complesse analisi socioculturali che continuano ad aggrapparsi a valori e coefficienti sociali evaporati da almeno vent’anni…

2) La seconda riflessione scaturisce in parte dalla prima. Uscire a fare shopping e a bere con gli amici dovrebbero essere cose semplici e piacevoli, spensierate e frivole. Nessuno ne mette in dubbio l’importanza sociale (ed economica) in condizioni di sicurezza e di normalità. Ma farle a tutti i costi, anche in situazioni allucinanti (ed allucinate) le rivela per quello che sono, ovvero compulsioni, frenesie, atteggiamenti nevrotici originati da vite vuote, grigie, senza sogni, prive di gratificazioni che non siano biecamente materiali.

Ma quale persona psichicamente sana potrebbe mai trovare piacevole mettersi in fila con una mascherina in faccia, per ore sotto il sole, sperando di aggiudicarsi le scarpe di Lidl? Come si fa a trovare divertente fare shopping a Natale, divincolandosi tra orde di potenziali untori, con la preoccupazione di ammalarsi ed infettare i propri cari? Il tutto, lo ripeto, in un contesto di sofferenza generale che, anche solo per pudore, avrebbe dovuto richiamare a comportamenti più sobri.

Vale qui davvero la pena di rispolverare la piccola perla nascosta nel piacevole romanzo di Frédéric Beigbeder intitolato Lire 26.900 (Feltrinelli Editore). “Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. (…) Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma”.

Non sono le parole di un filosofo tedesco o di un intellettuale di sinistra, ma quelle di un autentico mainstream-man, un vanto del capitalismo, un pubblicitario plurimiliardario (malato di soldi, prostitute e auto di lusso) che sull’infelicità e la credulità della gente ha costruito la propria fortuna (quella sì, reale eccome).

Un giorno non lontano, scopriremo come siamo passati dall’horror movie Essi Vivono di Carpenter all’horror vacui di Essi Consumano. Nel frattempo, la cruda realtà è che le persone continuano ad illudersi che il consumare concederà loro quel po’ di felicità che gli è inaccessibile per altre, ben più gratificanti vie. Una felicità artificiale, anestetica (predetta dai grandi scrittori di fantascienza) che come una droga offre loro un riparo da quel latente senso di vuoto di cui sempre si avverte la minaccia. Nel desiderio del nuovo e della novità, si esaurisce l’illusione di una felicità che il mondo della tecnica e la società dell’edonismo hanno ormai relegato nel rito del consumo delle cose, e delle persone. Ma “farsi” di novità offre un riparo alquanto fragile da quella vertigine che sempre riaffiora, inesorabile, quando non più nelle parole, negli affetti, nelle relazioni, nell’arte, nella cultura e nei silenzi, si svolge tutta la propria misera e meccanica esistenza.

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