Martedì la televisione di Stato iraniana ha reso noti i nomi dei sette candidati ammessi a correre per le elezioni presidenziali del prossimo 18 giugno. Al vaglio del Consiglio dei Guardiani – presieduto dal chierico ultra conservatore Ahmad Jannati ed oggi dominato da due formazioni principaliste (cioè non riformiste) come la Società dei seminaristi di Qom e l’Associazione del Clero combattente – erano passati 590 aspiranti, tra cui diverse donne e politici riformisti, tutti squalificati.

Sono due i candidati di area centrista-riformista ammessi. Il primo è Mohsen Mehralizadeh, già ministro dello Sport nel governo riformista di Mohammad Khatami e governatore della provincia di Isfahan, nonché detentore del curioso primato di candidato con più voti ricevuti tra quelli arrivati ultimi in una tornata elettorale dal 1979: nel 2005, infatti, Mehralizadeh si posizionò ultimo tra i sette candidati – le elezioni le vinse Ahmadinejad -, ottenendo ben il 4,4% dei voti. Il secondo è Abdolnaser Hemmati, centrista, nominato tre anni fa governatore della Banca centrale dal presidente in carica Hassa Rouhani.

Se la Guida Suprema, Ali Khamenei, ha invitato l’elettorato a non ascoltare gli inviti al boicottaggio diffusi da una parte della società civile, delusa dall’incombere di una competizione elettorale nettamente spostata su posizioni principaliste, è anche per via degli altri nomi ammessi: il capo del giudiziario Ebrahim Raisi (nella foto), già competitor di Rouhani alle ultime elezioni, nonché candidato “forte” del fronte conservatore; il sempreverde generale Mohsen Rezaei, veterano della guerra Iran-Iraq e segretario del Consiglio dei discernimento; Alireza Zakani, politico conservatore della seconda generazione della rivoluzione islamica (i nati tra il 1965 e 1975), ammesso alle elezioni dopo esser stato squalificato due volte in precedenti tornate; Saeed Jalili, ex negoziatore sul nucleare del governo Ahmadinejad, ed infine Amir Hossein Qazizadeh Hashemi, un altro esponente di quel fronte di “destra populista” emerso con la figura dell’ex presidente Ahmadinejad, non esattamente sovrapponibile né al fronte riformista né a quello principalista, sebbene più “inclinato” verso quest’ultimo.

L’intensità della stretta sui candidati si intuisce non tanto e non solo dalla squalifica di decine di candidati riformisti, come l’ex vicepresidente Eshaq Jahangiri, e nemmeno da quella di un candidato difficilmente controllabile come lo stesso Mahmoud Ahmadinejad – il quale ha annunciato che boicotterà il voto -, quanto da quelle ben più sorprendenti di candidati come Ali Larijani: filosofo e politico di area conservatrice, esponente di una storica famiglia rivoluzionaria, Ali Larijani in questi anni si è spostato su posizioni più moderate soprattutto in merito alle negoziazioni sul nucleare con gli Stati Uniti.

Il nodo del nucleare – La sua esclusione induce a credere che Teheran – nelle vesti della Guida – abbia intenzione di gestire il dossier sul nucleare da una posizione di minore disponibilità, specie se si pensa che diversi analisti nelle scorse settimane avevano ipotizzato proprio Larijani come figura di compromesso tra il campo oltranzista e quello più dialogante sul nucleare.

Qualche giorno fa il diplomatico europeo Enrique Mora aveva riferito di colloqui privati a Vienna tra la delegazione iraniana e quelle occidentali, nei quali era riemerso il nodo principale: una sorta di clausola – o meglio, un periodo di “garanzia” – che gli iraniani vorrebbero inserire nel possibile ritorno di Biden all’accordo Jcpoa, con la quale assicurarsi che chiunque succeda al presidente americano non decida, come fatto da Trump, di sconfessare il suo predecessore e ritirarsi dal patto.

Per certi versi, sulle prospettive di accordo sul nucleare il piano si è già inclinato: il timore degli osservatori, quando Biden è stato eletto, era quello che il presidente americano, anziché tornare immediatamente sui passi di Obama, venisse indotto all’attesa dai “falchi” negli Stati Uniti, concorrendo così a far scivolare il tema del nucleare all’interno della campagna elettorale iraniana, rafforzandone i tratti di tema altamente divisivo.

I candidati e il fronte per l’accordo sul nucleare – La lista dei sette candidati comunica almeno un messaggio chiaro: Teheran nei prossimi mesi vuole creare un fronte compatto sul dossier nucleare, nel quale non si creino discrasie tra le prerogative del corpo diplomatico e quelle dei Guardiani della Rivoluzione (Irgc). Tra un comparto politico-militare che intende preservare le rendite di posizione dell’Iran nella regione, e quelle di una diplomazia (soprattutto nella figura dell’attuale ministro degli Esteri, Jawad Zarif) che negli ultimi anni ha portato avanti un difficile dialogo con l’Occidente. Un dialogo funzionale all’ottenimento di benefici economici ma fortemente contestato dal comparto militare iraniano (e di cui Khamenei è in parte un garante, un cappello di sintesi col fronte clerical-principalista) perché ritenuto espressione di ingiustificabile debolezza di fronte ai ripensamenti e alle mosse incendiarie (gli omicidi di Suleimani e di Fakhrizadeh in particolare) dell’amministrazione Trump.

Il nodo delle sanzioni – Un nuovo accordo sul nucleare non è tuttora da escludere, come fa filtrare da Vienna un diplomatico in condizione di anonimato a Politico, il quale sottolinea come tutto dipenda dalla presenza di una “volontà politica”. Alla quale, forse, aggiungere una questione di “postura”: i negoziatori iraniani, incalzati dal cambio di amministrazione che ne produrrebbe di uguale segno nella squadra negoziale, col rischio di un muro contro muro permanente, vorrebbero ottenere la rimozione di tutte le sanzioni prima del voto del 18 giugno, identificando quest’ultima come condizione fondamentale per la diminuzione delle attività di arricchimento dell’uranio, intensificate circa un anno dopo il ritiro di Trump dall’accordo. L’amministrazione Biden, però, pressata a sua volta da un’arena politica che tende naturalmente a posizioni di diffidenza verso l’Iran, ritiene la richiesta di rimozione integrale delle sanzioni come una posizione “massimalista”, e che invece vorrebbe modulare in relazione alla disponibilità iraniana ad abbassare le percentuali di arricchimento.

L’urgenza della ricollocazione dell’establishment – Come ricorda l’analista Mahan Abedini, le elezioni del 18 giugno non si giocano tanto sullo scontro tra conservatori e riformisti ma su una generale ricollocazione dell’intero establishment, un aspetto lambito anche da Khamenei in uno dei suoi ultimi discorsi, nel quale invoca un “cambiamento” soprattutto generazionale, invitando al protagonismo una nuova generazione di “giovani pii rivoluzionari”. Al di là di una soluzione al dossier nucleare, il prossimo presidente iraniano dovrà concorrere a dar vita ad un nuovo “consenso” nazionale sulle questioni chiave della Repubblica islamica, come la giustizia sociale in un paese sempre più diseguale e come la questione della partecipazione politica in un framework istituzionale delicato come quello iraniano.

Il voto del 18 giugno non si gioca sui candidati ma sulla strategia generale, sulla restaurazione di un nuovo indirizzo condiviso, che tenga insieme un establishment principalista, convincendolo di muoversi sulle “rotaie” della rivoluzione islamica, ed una società civile stremata da un decennio almeno di crisi economica ed isolamento crescente. Nonostante gli inviti di Khamenei e anche dei candidati squalificati, l’affluenza promette di essere più bassa della media, e quasi sicuramente inferiore al 70% delle elezioni 2017.

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