Spettacolo, tanto. Distacchi, pochi. Il Giro d’Italia 2021 va in archivio con grandi emozioni, ma senza un vero tappone alpino, che avrebbe potuto sconvolgere davvero la classifica, magari cambiare la storia di questa edizione. Uno, in realtà, ci sarebbe anche stato: la 16esima tappa, da Sacile a Cortina d’Ampezzo. Ma fra le proteste dei corridori, l’imbarazzo degli organizzatori, la delusione dei tifosi, è stata accorciata. C’erano una volta le grandi frazioni dolomitiche, i percorsi infiniti e le pendenze infernali, il freddo e la pioggia, i distacchi abissali e le “cotte” memorabili. C’erano una volta e oggi, nel bene o nel male, ci sono sempre di meno. Le tappe epiche, che hanno fatto la storia del ciclismo, sembrano non essere più possibili nel ciclismo moderno. Quello che è successo lunedì scorso a Cortina non è un’eccezione, ma ormai quasi la regola: è il terzo anno di fila che il percorso subisce degli stravolgimenti. Nel 2020, nella strana edizione autunnale dovuta al Covid, c’è stato lo scandalo di Morbegno, che non era la frazione più importante, soltanto la più lunga, boicottata dai corridori prima del via. Nel 2019 era saltato il Gavia causa neve. I tapponi alpini, quelli con un chilometraggio superiore ai 200 km e un dislivello di 5-6mila metri, praticamente non si corrono più. Non li vogliono correre più.

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“Il ciclismo sta cambiando”, spiega a ilfattoquotidiano.it, quasi sconsolato, Mauro Vegni, direttore del Giro d’Italia. “C’è un’attenzione giusta ma per certi versi esasperata sulla sicurezza dei corridori, che oggi non è solo stradale, ma anche di salute, psicologica. C’è una rivendicazione sempre maggiore dei loro diritti, e noi organizzatori siamo in difficoltà”. I ciclisti si rifiutano di correre come in passato: condizioni meteo che fino a ieri erano definite epiche oggi vengono considerate estreme e inaccettabili; le discese più “tecniche” semplicemente pericolose; i chilometraggi più lunghi, dove si faceva il fondo e la vera selezione, noiosi e “antitelevisivi”. La fatica c’è sempre, ma fa un po’ più paura. E se si può si prova a ridurla. Così è andata anche lunedì scorso: le previsioni non erano buone ma nemmeno pessime, insufficienti a far scattare il protocollo meteo e l’intervento della giuria di gara, che può modificare o annullare una tappa o una sua parte. Eppure a poche ore è partita lo stesso la richiesta. Gli organizzatori, temendo un’altra figuraccia mondiale dopo Morbegno, hanno acconsentito.

C’è chi se la prende con gli sponsor, specie delle squadre più ricche (e più influenti in virtù dei loro investimenti), che avrebbero interesse a tenere blindata la corsa. Tutti puntano il dito contro la CPA (Cyclistes Professionnels Associés), il sindacato dei ciclisti, accusato di un eccesso di prudenza e di non fare davvero gli interessi della categoria. Ma in realtà al momento della votazione 16 squadre su 23 si sono espresse in favore dell’accorciamento. “Noi siamo solo i portavoce del gruppo”, spiega Laura Mora, segretaria generale CPA. “Negli ultimi anni l’attenzione è molto cresciuta perché sono cresciuti i pericoli, le bici sono più veloci, si va sempre più forte. È aumentata la consapevolezza dei corridori, che oggi hanno la forza e il coraggio per pretendere condizioni di gara migliori. Invece di prendersela con loro, è il momento di aprire un tavolo: fissare dei criteri oggettivi sulla definizione dei percorsi e le condizioni di svolgimento, per evitare che queste situazioni si ripetano in futuro”.

La sensazione è che in questo momento storico la forza degli organizzatori sia ai minimi termini. Soprattutto al Giro d’Italia, meno al Tour, dove questi episodi restano sporadici: perché in Francia si corre a luglio e le condizioni in quota sono migliori, ma anche perché di fronte al prestigio della Grande Boucle certe rimostranze sono più timide. E viene quasi da chiedersi se abbia ancora senso prevedere queste tappe nel percorso, visto che poi vengono sistematicamente smontate. “L’edizione di quest’anno era già più semplice, con salite sempre nel finale e il 70% delle frazioni più corte, per andare incontro alle esigenze delle tv e dei corridori. C’era un solo tappone e me l’hanno accorciato. Ma io non mi arrendo, perché credo che questa sia ancora l’essenza delle grandi corse a tappe”, conclude Vegni. È stato comunque un bel Giro, divertente, spettacolare. Tanti arrivi in salita, tanti attacchi, tanti distacchi ma quasi sempre contenuti. Un tempo però con i tapponi dolomitici era diverso. Era un altro ciclismo.

Twitter: @lVendemiale

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