La tutela della biodiversità è il miglior antivirus che esista, ma in tutto il mondo un milione di specie di piante, insetti, uccelli e mammiferi rischiano l’estinzione (e ogni giorno si estinguono fino a 200 specie), mentre in Italia si parla di una perdita annuale pari allo 0,5% del totale. Eppure nel Pnrr sono andati meno di 1,7 miliardi a “qualità dell’aria e biodiversità”, lo 0,8 per cento di tutto il budget del piano. Così divisi: mezzo miliardo per la bonifica dei ‘siti orfani’ eredità dell’inquinamento industriale, 330 al verde urbano ed extraurbano (con azioni rivolte principalmente alle 14 città metropolitane, incluso lo sviluppo di boschi urbani e periurbani, piantando almeno 6,6 milioni di alberi), 100 milioni alla digitalizzazione dei parchi nazionali, 400 milioni per ripristino e tutela dei fondali e degli habitat marini e un investimento da 336 milioni per la rinaturazione dell’area del Po. E se quest’ultimo è stato definito dal Wwf, che ha contribuito alla sua elaborazione “il progetto più strategico per la tutela della biodiversità e il ripristino ambientale”, per Greenpeace non bastano gli interventi di selvicoltura urbana.

Ancora di più se si collega il tema ambientale a quello sanitario: il numero di zoonosi trasmesse da animale a uomo è quasi triplicato negli ultimi 40 anni, complice l’azione dell’essere umano sull’ambiente. “Forestazione e rimboschimento non devono riguardare esclusivamente le città metropolitane, ma interessare anche il resto del territorio nazionale” spiega a ilfattoquotidiano.it Martina Borghi, campagna Foreste di Greenpeace. E il territorio italiano deve far fronte a diverse minacce, come emerge nel report di Legambiente ‘Biodiversità a rischio 2021’. Oltre allo stato di salute della flora, in particolare quella appenninica e di diversi uccelli nidificanti, a preoccupare è il futuro di alcune specie animali che popolano il Mar Mediterraneo, come tartarughe marine, delfini, uccelli, squali e razze, sempre più oggetto di catture accidentali della pesca professionale, che spesso avvengono nel Mar Adriatico.

IL LEGAME TRA BIODIVERSITÀ E PANDEMIA – Non è solo una questione ambientale, ma anche sanitaria. Sono diversi gli studi che approfondiscono il legame tra perdita di biodiversità e il rischio di esposizione a patologie zoonotiche, ossia che derivano dal contatto tra uomo e animali. Tra gli ultimi il rapporto Proceedings of the National Academy of Sciences realizzato dal Cary Institute of Ecosystem Studies di New York. D’altronde Sars, influenza aviaria H1N1, Mers, Ebola, Sars-Cov2 e altre ancora sono tutte zoonosi, malattie presenti negli animali che hanno fatto il ‘salto di specie’ verso l’uomo. “Quando abbattiamo foreste, prosciughiamo habitat di acqua dolce, cancelliamo ecosistemi naturali – spiega il Wwf – spingiamo gli animali in aree sempre più frammentate, li sottoponiamo a stress, alteriamo gli equilibri naturali favorendo il salto di specie dei virus e la trasmissione di altri patogeni”. Dove si distruggono le foreste, infatti, l’uomo è più esposto al contatto con nuovi microbi tramite le specie selvatiche che li ospitano. Secondo l’IPBES, organismo dell’Onu che si occupa di biodiversità di circa 1,7 milioni di virus che circolano tra mammiferi e uccelli “circa 850mila potrebbero avere la capacità di trasferirsi alle persone, come avvenuto con Sars-Cov2” spiega Martina Borghi, in un post pubblicato in queste ore da Greenpeace, nel quale ricorda come “nel mondo, ogni due secondi un’area di foresta grande come un campo da calcio viene rasa al suolo soprattutto per produrre soia destinata alla mangimistica e far spazio a pascoli di bovini”. Anche i cambiamenti nelle pratiche agricole, dunque, sono associate all’aumento delle malattie zoonotiche. “I cambiamenti di uso del suolo e la distruzione di habitat naturali come le foreste sono responsabili dell’insorgenza di almeno la metà delle zoonosi emergenti” spiega il Wwf. Se le foreste sono l’habitat per l’80% della biodiversità terrestre, solo nel nostro Paese racchiudono oltre 2mila milioni di tonnellate di CO2.

IL DECLINO DELLA DIVERSITÀ E IL PNRR – In Italia gli studi effettuati nell’ambito delle Liste Rosse dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN) evidenziano una perdita annuale di specie pari allo 0,5% del totale, come conseguenza diretta o indiretta delle attività umane. Basti pensare, proprio rispetto al Po, che lo stesso Pnrr descrive una situazione dove “l’eccessiva ‘canalizzazione’ dell’alveo, l’inquinamento delle acque, il consumo di suolo, le escavazioni nel letto del fiume fino agli anni ’70, hanno compromesso parte delle sue caratteristiche e aumentato il rischio idrogeologico e la frammentazione degli habitat naturali”. Circa anno fa, in occasione del vertice Italia-Francia, l’Italia aveva annunciato l’intenzione di tutelare il 30% della superficie dei propri mari e dei propri territori entro il 2030, mentre a settembre 2020 è entrata nel Leaders’ Pledge for Nature con l’impegno ad azioni urgenti entro il 2030. Ad oggi poco più del 19% delle acque nazionali è sottoposta a misure di conservazione e, per raggiungere gli obiettivi dell’Unione Europea, il Pnrr mette sul piatto 400 milioni. Per rafforzare il sistema nazionale di ricerca e osservazione degli ecosistemi marini e costieri “anche aumentando la disponibilità di navi da ricerca aggiornate (attualmente carenti)”. L’obiettivo è arrivare “al 90% dei sistemi marini e costieri mappati e monitorati”, ma appena “il 20% restaurati”.

MEDITERRANEO E MAR ADRIATICO – Il Mar Mediterraneo ospita tra il 4 e il 18% di tutte le specie marine viventi sul nostro Pianeta, molte delle quali endemiche. “Attualmente – spiega il rapporto ‘Biodiversità a rischio 2021’ di Legambiente – è una delle aree maggiormente interessate dal marine litter nel mondo, con grave rischio per la biodiversità, in particolar modo per le specie in pericolo come tartarughe marine, squali filtratori e balenottere”. Inoltre, una buona percentuale (il 75%) di tutti gli stock ittici del Mediterraneo esaminati a livello europeo è sovrasfruttata e questo impone ulteriori sforzi per garantire la sostenibilità delle risorse ittiche a lungo termine. Preoccupa, in particolare, la situazione del Mar Adriatico, in grande sofferenza con il 90% degli stock ittici sovrasfruttati. Parliamo di un’area intensamente sfruttata dalla pesca a strascico e dalle reti da posta per via delle sue caratteristiche, fondi molli e privi di asperità. C’è poi la questione delle catture accidentali o accessorie (il cosiddetto bycatch) della pesca professionale, che interessa specie vulnerabili e talvolta a rischio d’estinzione e, quindi, protette da Convenzioni Internazionali.

UCCELLI NIDIFICANTI E FLORA APPENNINICA – E poi ci sono anche gli uccelli nidificanti, minacciati principalmente dal cambiamento dei sistemi naturali, seguito da inquinamento, agricoltura, acquacoltura e cambiamenti climatici. Nella recente Lista Rossa sugli uccelli nidificanti in Italia sono state valutate 278 specie e sono dieci quelle in grave pericolo: Voltolino, Schiribilla, Cormorano atlantico, Mignattino comune, Falco Pescatore, Gipeto, il Capovaccaio, la Forapaglie comune, la Bigia padovana e il Migliarino di palude. Diverse anche le specie florali a rischio: la Scarpetta di Venere, l’Adonide ricurva, l’Iris Marsica, l’Aquilegia della Majella, solo per citarne alcune. “Le principali minacce – denuncia Legambiente – oltre al cambiamento climatico in atto, sono gli incendi, il pascolo incontrollato, l’evoluzione spontanea della vegetazione e localizzati sovraffollamenti turistici. Ci sono anche buone notizie però, come la ricomparsa del raro sciacallo dorato e del castoro e i nuovi avvistamenti della foca monaca. In aumento, inoltre, le nidificazioni della Caretta caretta. “Ad oggi – spiega Antonio Nicoletti responsabile nazionale aree protette e biodiversità di Legambiente – nessuno degli Aichi biodiversity Targets della COP 10 del 2010 è stato pienamente raggiunto e ciò ha indotto la Convenzione sulla biodiversità a correre ai ripari attraverso la predisposizione di un nuovo quadro globale (Global Biodiversity Framework, GBF) al fine di sviluppare una strategia post-2020 ambiziosa e giuridicamente valida che arresti entro il 2030 il tasso di perdita di biodiversità”.

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