Era l’ottobre 2019 quando Matteo Renzi, fresco di uscita dal Pd, lanciava un inedito contest per il suo nuovo progetto politico. “Facciamo una cosa diversa dagli altri partiti: decidiamo il logo tutti insieme!”, scriveva su Facebook, chiedendo ai simpatizzanti di scegliere una di tre proposte grafiche. “Mi piace l’idea che questa casa sia un luogo ricco di partecipazione”, spiegava. A distanza di due anni e mezzo, però – ironia della sorte – l’avveniristico simbolo blu-fucsia resta più o meno l’unica cosa su cui gli iscritti di Italia Viva sono stati chiamati a esprimersi. Il partito, raccontano dall’interno, è uno scafo che imbarca acqua ogni giorno, minato dalla perdita di credibilità del suo leader, dall’assenza di un’identità politica e – più di tutto – da una democrazia interna inadeguata, per non dire evanescente. I sondaggi piangono: l’ultima rilevazione di Swg dà la creatura renziana al 1,7%, nonostante l’iper-esposizione mediatica a cavallo della crisi di governo. L’ambizioso statuto, ricco di richiami alla “sussidiarietà”, al “pluralismo” e alla “condivisione”, è lettera morta, ignorato nei suoi passaggi centrali. Così in parecchi, nelle ultime settimane, hanno scelto di abbandonare la nave: non solo e non tanto quadri e colonnelli ma soprattutto giovani militanti della base, frustrati da un cerchio magico che non sembra dar loro alcuna voce in capitolo nelle scelte che contano.

L’attivismo? Solo sui social – Ha fatto rumore, ad esempio, lo sfogo della 23enne Arianna Furi, voluta giovanissima da Renzi in direzione Pd per poi seguirlo dopo la scissione. “Non siamo radicati sul territorio, non facciamo servizio alla comunità, gli organi politici non vengono convocati. Più che un partito, Italia Viva sembra un brand che ogni tanto prende posizione per bocca del suo leader. Non esistiamo, se non in Parlamento”, ha detto a Repubblica annunciando il suo ritorno alla “ditta”. È proprio per chi viene dalla militanza dem, infatti, che l’inconsistenza territoriale del nuovo progetto si è rivelata più deludente. “Dal punto di vista di un iscritto, Pd e Italia Viva sono l’esatto opposto”, dice al fattoquotidiano.it un 35enne ex dirigente locale. Si è dimesso pochi giorni fa, ma comunque non vuole che il suo nome venga pubblicato: “Nel Pd si discute, fin troppo, su tutto: chi porta idee e convince ha la possibilità di incidere, anche se poi spesso viene bombardato dall’interno. Qui invece l’attivismo è inesistente, al militante modello si chiede di fare da megafono sui social: condividete questo post, mettete like a quell’altro, una cosa umiliante”. A differenza dei circoli Pd, poi, i comitati di Italia Viva – recita lo statuto – “non sono dotati di autonomia patrimoniale”, cioè, banalmente, di un conto corrente proprio. “I soldi delle tessere che raccogliamo vanno tutti a Roma, a noi non resta un euro. Così è difficile fare politica. E infatti chi ci prova, lanciando iniziative o proposte concrete, è visto come un corpo estraneo, una minaccia”.

Comitato fantasma, nomine imposte – Il coinvolgimento della base, finora, è stato nullo anche nella scelta delle cariche dirigenziali. Da statuto, le nomine dei Coordinatori territoriali (dal livello regionale a quello municipale) dovrebbero essere “ratificate con voto dal Comitato Nazionale”. C’è un problema: il Comitato Nazionale – che sempre lo statuto descrive come “l’organo di organizzazione e di indirizzo politico” che dà “esecuzione al progetto politico definito dal Congresso”, imponendone la convocazione “almeno due volte l’anno” – non si è ancora mai riunito nella storia di Italia Viva. Di più: è stato formato da appena cinque mesi, oltre un anno dopo la nascita del partito. Così, nel frattempo, i Coordinatori sono calati per cooptazione dall’alto. “Io sono stato investito con un messaggino del mio dirigente superiore, a sua volta scelto da Ettore Rosato (Coordinatore nazionale insieme a Teresa Bellanova, ndr)”, racconta l’ex quadro. “Per dimettermi è bastato uscire da una chat WhatsApp. Rispetto al Pd, in cui tutte le cariche sono elette secondo precise liturgie, è un altro mondo”. L’irritualità delle nomine, peraltro, riguarda lo stesso vertice della piramide, cioè Rosato e Bellanova: che in teoria “sono eletti dal Congresso secondo le modalità previste da apposito Regolamento approvato dall’Assemblea Nazionale”, in pratica sono stati appuntati da Renzi lo stesso giorno del lancio mediatico di Iv, e da allora mai più messi in discussione.

Confronti a senso unico – Anche perché il Congresso (“il momento di espressione diretta della volontà di tutti gli Associati di Italia Viva, che ne stabiliscono il progetto e gli obiettivi politici generali”) non sembra all’orizzonte. Anzi, è quasi una chimera. Chi è stato così temerario da chiedere pubblicamente di tenerlo – il deputato Camillo D’Alessandro – si è visto voltare da un giorno all’altro le spalle dai big del partito. “Finché comanda Renzi, l’ipotesi di un congresso è fantascienza”, spiega la fonte. “Non accetterà mai di farsi ingabbiare in una linea diversa da quella che lui decide con se stesso in base a come si sveglia al mattino”. Eppure, anche tra gli eletti, molti avrebbero voluto in qualche modo dire la propria sulle scelte più discusse del leader. Ad esempio l’apertura della crisi di febbraio: chi avrebbe dovuto far mancare i voti a Conte erano deputati e senatori, ma a quanto apprende ilfattoquotidiano.it da alcuni parlamentari, un confronto vero e proprio sul tema non c’è mai stato. Le riunioni, spiegano, somigliavano a passaggi formali per notificare ai gruppi strategie già decise, in cui anche i meno convinti di un’eventuale sfiducia non si sarebbero mai azzardati a esplicitarlo. E le stesse dinamiche si erano registrate in occasioni precedenti: è il caso della campagna per la legge sul “Sindaco d’Italia”, annunciata in pompa magna da Renzi alla stampa a febbraio 2020 senza che i suoi parlamentari ne sapessero nulla.

Ammiccamenti pericolosi – Altra questione centrale su cui, in teoria, la parola spetterebbe agli organi statutari sono le alleanze. La base è spaccata tra chi insiste a collocarsi nel campo del centrosinistra (senza però i 5 stelle) e chi sogna il “polo riformista” da Insieme a +Europa e Azione di Carlo Calenda, senza disdegnare un dialogo col centrodestra. Ma anche questo tema non è mai stato discusso tra dirigenza e iscritti, nemmeno in Assemblea nazionale, l’unico tra gli organi a riunirsi con una certa regolarità. Anzi: “Credo che nelle quattro assemblee tenute finora non sia mai stata messa ai voti alcuna mozione”, confida un delegato, sempre con la promessa di restare anonimo. La confusione è tale che poche settimane fa 11 dirigenti calabresi hanno abbandonato in massa il partito, infuriati per gli “ammiccamenti” al governatore leghista Spirlì e l’”intergruppo per il ponte sullo Stretto” formato tra parlamentari di Italia Viva, Lega e Forza Italia. “È la conferma dei mali antichi del partito, come un totale scollamento tra la dimensione verticistica e un corpo intermedio di iscritti e dirigenti che intuiscono solo dalla stampa gli orientamenti in merito ai temi e alle alleanze”, hanno scritto. Nello stesso periodo, hanno detto addio gli eletti Manuela Mirra (a Napoli), Patrizia Baffi (in regione Lombardia) ed Eugenio Comincini (in Senato). “Succede quando si punta tutto sulla comunicazione e niente sulla politica”, commenta amaro un parlamentare che non vuole render pubblico il suo nome. “Più che di un brand, io parlerei di un fan club”.

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