La vicenda delle prime rappresentazioni di Sei personaggi in cerca d’autore è tipicamente pirandelliana. A distanza di pochi mesi, la stessa messa in scena ottenne due atteggiamenti completamenti differenti, in perfetta “sintonia” con quel “sentimento del contrario” ben radicato in tutta l’opera del Premio Nobel, siciliano e universale al tempo stesso.

Il centenario della prima – dell’innovativo e coraggioso testo di Luigi Pirandello – rimanda a quella sera del 9 maggio 1921 e al coro di proteste che riempirono il Teatro Valle a Roma di pesanti grida di disapprovazione per quello che fu ritenuto un flop, senza risparmiare gli appellativi di buffone e di un palcoscenico trasformato in “manicomio” secondo il giudizio di quel pubblico. E qui la differenza comincia a delinearsi. Quel pubblico non capì e per la verità anche il commediografo e regista Dario Niccodemi aveva espresso le medesime perplessità e incomprensioni su quel copione che Pirandello scrisse in tre giorni, circostanza che potrebbe far pensare che la fretta fosse stata cattiva consigliera.

Ma il genio, nello spazio di poco tempo, aveva creato un nuovo modo di fare teatro, quasi una “diretta” affidata ai personaggi smarriti in cerca di quell’autore che ancora non si riesce a trovare, e che costituisce nelle nuove generazioni un costante punto di riferimento, un faro, una luce. Nella rappresentazione di Milano (27 settembre al Teatro Manzoni), invece, lo “scenario” fu completamente opposto. Questa volta la squadra non solo vinse la partita, ma fu il punto di partenza di una nuova concezione scenica di quel “teatro nel teatro” con continui capovolgimenti di fronte tra finzione e realtà, abbattendo tutte le possibili pareti e, al tempo stesso, anche la distanza tra attori e spettatori.

La forza di un simile tracciato è la capacità di raccogliere quanto è stato seminato. Quel fiume di eccellente creatività nel corso del Novecento, fino a giungere ai nostri giorni, è stato alimentato e arricchito da tanti affluenti che, con originalità, hanno saputo collocare questo fiore all’occhiello della nostra drammaturgia anche con aspetti metaforici e consequenziali rispetto all’alveo principale.

Il modello letterario di Luigi Pirandello continua ad ispirare, dunque, l’opera di giovani autori italiani e stranieri. Tra questi spicca in particolare Alessio Arena, talentuoso autore siciliano che ha da poco pubblicato il libro La vena verde (IQdB Edizioni), un lungo monologo liberamente ispirato alle lettere di Antonietta Portolano, la moglie di Pirandello. La protagonista del testo di Arena è una paziente di una “casa di cura e di custodia” italiana, nella prima metà del ‘900. Non ha nome e si rivolge a interlocutori silenziosi, spesso raccontando aneddoti del proprio sofferto passato. Come nei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, la protagonista di questo intenso monologo vive in limbo tra realtà e finzione.

Nelle parole pronunciate dalla donna emerge la natura distopica di una realtà controversa e di un’esperienza personale lacerata da legami affettivi tormentati e da una interiorità sofferente, ma dignitosa. Arena, come nei Sei personaggi pirandelliani, non chiarisce mai fino in fondo il confine tra follia e lucidità, tra passato e presente, tra vita e morte. La stessa protagonista, infatti, potrebbe essere un fantasma che parla da un mondo altro, ma la forza delle sue parole e della sua sofferenza è dirompente, come se fosse viva.

Questo recente testo, ad esempio, si configura quale ennesimo e significativo “atto d’amore”; un omaggio al Maestro e ai diversi di ogni luogo e di ogni epoca, relegati ai margini delle società dai potenti di turno. È questa forse l’eredità più importante a cento anni dalla mesa in scena di un testo fondamentale. Capire che esiste una seconda possibilità in grado non solo di ribaltare la “prima”, ma di chiarirne completamente il contenuto, fino al punto di comprendere le incomprensioni. Con un messaggio chiaro proprio alle nuove generazioni: “non vi arrendete, non vi fermate alle prime impressioni, esiste un riscatto all’interno di una sconfitta”.

E la voce di Pirandello, ancora una volta, arriva nitida come se leggesse non un testo ma i nostri pensieri, compresi i dubbi o le perplessità: “Il conflitto immanente tra la vita e la forma è collisione inesorabile non solo per ordine spirituale ma anche di quello naturale. La vita che è fissata per essere nella nostra forma culturale a poco a poco uccide la sua forma. Il pianto di questa natura fissata è l’irreparabile continuo invecchiare del nostro corso. Tutto ciò che vive per il fatto che vive ha forma e per se stesso deve morire, tranne l’opera d’arte che appunto vive per sempre in quanto è forma”.

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