Il colpo di scena è arrivato addirittura dopo i titoli di coda. È bastato l’inchiostro nero di due comunicati stampa per cambiare il colore del futuro giallorosso. Il primo ha iniziato a rimbalzare in mattinata. Giusto qualche riga per far sapere a tutti quello che tutti avevano già capito da tempo. La Roma e Paulo Fonseca si separeranno. Ma con calma. Perché tanto senza più l’assillo di un obiettivo da raggiungere, senza l’obbligo di trovare un senso a quel che resta di una stagione, non vale la pena affrettare i tempi. Un concetto che ha preso molti in contropiede. Perché la Roma che perdeva sempre con le “grandi” si è trasformata prima nella Roma che perdeva anche contro le piccole, poi nella Roma che poteva perdere contro chiunque.

E ora, con Manchester United, Inter e Lazio ancora da affrontare, la paura delle imbarcate ha assunto i contorni tetri della probabilità. Poi, all’improvviso, ecco che nel momento più buio è arrivato il plot twist. E la rassegnazione ha cominciato a lasciare spazio alla speranza. Nel primo pomeriggio il club dei Friedkin ha lanciato un secondo comunicato. Stavolta per procedere a un’annunciazione molto particolare. José Mourinho guiderà la squadra a partire da giugno. Per i prossimi tre anni. E non sarà un semplice allenatore, ma il “responsabile tecnico” del club. Una scelta paracula e perfetta, che traveste una grande scommessa da certezza assoluta, che terremota l’idea di una Roma ormai irrimediabilmente distante dalle prime della classe. Perché Mou è un allenatore dal passato sovradimensionato rispetto al futuro di una squadra che zoppica al settimo posto in classifica, che rischia di non qualificarsi neanche per la Conference League, la nuova competizione Uefa, e che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con un’emorragia continua di talento. E proprio per questo il portoghese è anche un antidepressivo naturale che cancella la paura di essere costretti a fare economia anche sui propri sogni.

Assumere José Mourinho vuol dire elevare a sistema un’idea. Quella di poter competere con i più forti, di poter, anzi, di dover vincere qualcosa. La semplice presenza del portoghese è promessa di opulenza, di un mercato di livello, di nuove ambizioni. È stato sufficiente annunciare l’accordo per amplificare le speranze di una tifoseria. Perché il suo arrivo è apparentemente incompatibile con l’attuale rosa giallorossa. Affidandogli la squadra i Friedkin hanno voluto urlare le proprie ambizioni. L’era degli allenatori futuribili è finita. Adesso la Roma ha scelto l’ancien regime, la concentrazione dei poteri. Una volta accolto il Re Sole, però, bisogna costruirgli intorno una piccola Versailles. Senza giocatori di livello la suggestione di arrivare a vincere con Mourinho viene declassata a imbonimento di piazza.

Il portoghese ha bisogno di calciatori da spolpare, di caratteri da accendere, di piedi che sappiano pensare. E senza questi il portoghese rischia di risolversi in un allenatore comune, forse anche superato. La garanzia viene da un dettaglio: l’aziendalismo del portoghese è secondo solo alla cura per il suo ego. Le sue disfatte non sono mai personali, ma sempre eteronome, indotte dall’esterno. Per questo ha sempre sposato progetti con un certo margine di successo. Le vittorie come parabole sulle quali costruire il culto di sé stesso, le Champions League in bacheca come miracoli buoni a confermare la sua natura di unto dal signore. Sposando la Roma ora Mourinho ritorna alla sua versione piratesca, quella dei primi anni della sua carriera, i più fortunati, quando giocando a fare il corsaro di lusso si presentava come uomo di opposizione pur stando al governo, fiero oppositore di un sistema del quale in realtà faceva parte.

Mourinho nella Capitale è una promessa di spettacolo, per qualcuno più fuori che dentro il campo. Ma è soprattutto un tentativo di fare all-in, una scommessa senza mezze misure, che potrebbe rivelarsi una scelta illuminata o un azzardo folle. Da parte di un allenatore che un tempo si autodefiniva lo “Special One” e che ora rischia di vedersi appiccicare addosso l’etichetta di esonerato seriale dopo i licenziamenti incassati da Real Madrid, Chelsea, Manchester United e, qualche settimana fa, Tottenham. Ma soprattutto da parte di una dirigenza che ha fatto inversione a U rispetto al passato prossimo. L’addio a Fonseca ha messo in naftalina l’ennesimo progetto tattico basato sull’utopia del calcio propositivo e dominante, un principio idealizzato da tre generazioni di proprietà americane che ha finito per cannibalizzare un allenatore dopo l’altro. Luis Enrique, Zeman, Andreazzoli, Rudi Garcia, Spalletti, Di Francesco, Ranieri. Fino a Fonseca, appunto.

La scelta di Mourinho è il ribaltamento esatto di questo concetto. È l’estremo tentativo di dimostrare che un calcio considerato obsolescente può essere ancora remunerativo, che l’oscurantismo del contropiede può ancora mettere in difficoltà l’illuminismo del possesso palla. In All or Nothing-Tottenham Hotspur, José dà una definizione perfetta del suo lavoro. Dice di curare con grande attenzione i meccanismi difensivi. E poi di limitarsi in fase offensiva ad allenare la capacità due suoi calciatori a compiere la scelta più remunerativa. Tutto vero, anche se dopo diciassette mesi i calciatori degli Spurs non ne potevano più dei suoi allenamenti, delle ore passate a provare come difendere sulle rimesse laterali avversarie prima di una partita contro il Liverpool. In un articolo uscito un paio di settimane fa su The Athletic, Jack Pitt-Brooke ha cucito insieme una serie di episodi spifferati da qualche “insider”, talpe anonime che fanno parte nello spogliatoio del Tottenham. E non sono esattamente frasi piene di ammirazione.

Dopo anni di costruzione dal basso e di possesso palla con Mauricio Pochettino, Mourinho ha deciso di cambiare spartito. Senza grandi risultati. “Era così ossessionato dall’idea fermare l’avversario che i calciatori non sapevano come attaccare”, hanno detto. “Durante l’era Mourinho il Tottenham sembrava insicuro su cosa fare con il pallone o su come costruire l’azione dalla difesa”, hanno sussurrato. “Ha succhiato via la cultura del club, e ha distrutto ciò che gli Spurs hanno rappresentato per anni”, hanno garantito. Ma c’è una frase che sintetizza alla perfezione il “rischio” Mourinho. E l’ha pronunciata un “leading coach”: “Mi piace José, ma è disconnesso dalla nuova generazione di giocatori e dalla nuova generazione di allenatori”. Parole spietate. Soprattutto perché sono vere. I calciatori che raccontavano ai giornali che si sarebbero gettati nel fuoco per Mourinho si sono ritirati. Tutti quanti. E quelli che hanno preso il loro posto non reagiscono allo stesso modo ai suoi giochi mentali, al suo continuo tentativo di spronarli, ai nemici immaginari.

A rileggerle anni dopo le sue frasi iconiche suonano improvvisamente arcaiche, incomprensibili per quella nuova nidiata di calciatori che lui stesso ha definito “bambini viziati”. Vittoria dopo vittoria, in un ciclo che sembrava impossibile da spezzare prima del suo arrivo al Tottenham, la figura del portoghese ha assunto un carattere mistico. Mou come rabdomante del talento, come santone in grado di compiere miracoli. Niente di più diverso rispetto al calcio cibernetico e complesso della nuova generazione di allenatori che si sta sedendo sulle panchine più importanti del Vecchio Continente. L’arrivo del portoghese assomiglia a una lotta contro l’estinzione. Della sua idea di calcio, di un club che in quest’ultimo anno non si è mai limitato a perdere, ma che troppo spesso ha dovuto farsi umiliare. La paura è che “L’Alieno” magnificamente tratteggiato da Sandro Modeo possa lasciare il posto a Kunt, il “Marziano a Roma” di Ennio Flaiano, l’extraterreste prima accolto con grande curiosità e poi ignorato e sbeffeggiato dai romani. Ora l’uomo che anni fa disse che i giallorossi sarebbero rimasti a “zero tituli” è chiamato a riaprire una bacheca impolverata. E a smentire quella frase, sempre di Ennio Flaiano, che dice che “vivere a Roma è un modo di perdere la vita”. Almeno quella sportiva.

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