Quattordici arresti contro il clan Riviezzi, con base a Pignola e influenza sull’intero territorio della provincia di Potenza, tanto da essere arrivato a gestire – attraverso un prestanome – il bar all’interno del Palazzo di giustizia del capoluogo lucano. Un duro colpo, quello inflitto dalla procura guidata da Francesco Curcio, con il blitz eseguito dalla Squadra mobile potentina, dallo Sco e dal Gico della Guardia di finanza. Il clan Riviezzi “influenzava – ha evidenziato il procuratore che ha coordinato le indagini insieme al pm Gerardo Salvia – anche l’attività dell’amministrazione comunale di Pignola, con la capacità tipica mafiosa di far paura e intimidire pure gli amministratori pubblici”.

In carcere sono finite 11 persone, tra cui “lo zio” Saverio Riviezzi, ritenuto il capo dell’organizzazione e già alla sbarra nel maxi-processo al clan dei “Basilischi”, altre tre ai domiciliari mentre altre tre hanno ricevuto l’obbligo di firma. Eseguito pure il sequestro preventivo delle quote e del complesso aziendale di due società, una delle quale gestisce il bar del Tribunale di Potenza. Il provvedimento è stato adottato dopo un’indagine coordinata dalla Dda potentina che ha permesso di fare luce sull’esistenza e sul forte radicamento nel territorio del clan dei Riviezzi, collegato con il sodalizio Cassotta del Vulture Melfese e con gruppi sia in Calabria, dove secondo gli inquirenti i Riviezzi godono di particolari appoggi e considerazione, sia in Campania.

Le indagini sono durate due anni con intercettazioni, dichiarazioni di testimoni e collaboratori di giustizia, sopralluoghi, acquisizioni documentali, pedinamenti “disvelando – spiega il procuratore di Potenza, Francesco Curcio – la piena operatività del sodalizio pignolese e la sua endemica compenetrazione nel tessuto istituzionale ed imprenditoriale del potentino, al punto da essere in grado di condizionare alcuni settori della pubblica amministrazione locale, di governare il sistema degli appalti boschivi e di infiltrarsi sin dal 2017 quale segno di auto-affermazione in un luogo simbolico, oltre che di disponibilità economiche, nella gestione del bar-caffetteria del Palazzo di giustizia”.

In questo modo il clan dava “eclatante dimostrazione della propria forza verso l’esterno” e allo stesso tempo garantendosi “un osservatorio privilegiato all’interno di un palazzo nevralgico nel sistema di tutela e ripristino della legalità”. Le due società che si sono alternate nella gestione del bar sono intestate ad altre persone, ritenute dei prestanome, che servivano a schermare la gestione di fatto di soggetti appartenenti o contigui al sodalizio. Per la vicenda del bar, è stata contestata a un indagato la condotta estorsiva ai danni di un altro imprenditore, avvenuta nel 2018, per farlo recedere dal ricorso al Tar contro l’aggiudicazione del servizio.

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