di Massimo Arcangeli

In tempi di celebrazioni dantesche può essere interessante chiedersi quali siano stati i giochi preferiti da Dante, compresi quelli verbali.

Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond’ella è vaga,
veggendo Roma e l’ardüa sua opra
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra,
ïo, che al divino da l’umano
a l’etterno del tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano,
di che stupor dovea esser compiuto:
certo tra esso e ’l gaudio mi facea
libito non udire e starmi muto.
E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com’ello stea,
su per la viva luce passeggiando
menava io li occhi per li gradi,
mo su, mo giù e mo recirculando.
Vedëa visi a carità süadi,
d’altrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi.
La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso,
e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice, e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.

Sono i vv. 31-60 del XXXI canto del Paradiso. “Credevo di aver davanti ai miei occhi Beatrice”, dice Dante, e vidi invece “un vecchio (sene) vestito come le anime beate”. È san Bernardo di Chiaravalle, l’abate cistercense, e fondatore dell’omonima abbazia, che due canti dopo pregherà la Madonna perché metta il poeta in condizione di godere della visione di Dio nella sua pienezza.

Le lettere evidenziate in rosso, se si leggono di seguito, permettono di ricavare un probabile acrostico, figura di quel gusto per l’artificio, tutto medievale, messo in luce da tanti interpreti della Commedia: VIDESV ® VIDE SV ® VIDE SU. Anche qui, come nell’ultimo del Paradiso, Dante pare insistere sulla centralità di una visione che è generatrice di gioiosa meraviglia per lo spettacolo di luci e di colori che gli si squaderna davanti: è così intenso in lui il piacere di osservare, satura a tal punto i suoi sensi e le altre sue facoltà, da togliergli per un momento la voglia di parlare e perfino di sentire. Nel canto le presenze di una sintomatologia del vedere architettata e pervasiva non si contano; s’inseguono anzi ininterrotte per tutta la sua durata.

A rilevare per primo la presenza di un acrostico nella Commedia è stato Antonio Medin (Due chiose dantesche, “Atti e memorie dell’Accademia di Padova”, XIV, pp. 85-100), con l’VOM ® UOM di Purg. XII, 25-58:

Vedea colui che fu nobil creato
più ch’altra creatura giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l’un lato.
Vedëa Brïareo fitto dal telo
celestïal giacer, da l’altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d’i Giganti sparte.
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro.
O Nïobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saùl, come in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aragne, sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l’opera che mal per te si fé.
O Roboàm, già non par che minacci
quivi ’l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la ruina e ’l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
“Sangue sitisti, e io di sangue t’empio”.
Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro.

C’è chi ha compreso nel quadro anche la o successiva alla m iniziale di mostrava, pensando che Dante avesse voluto far materializzare l’UOMO anziché l’UOM. Che si debba però propendere per quest’ultima soluzione è reso evidente dalla terzina successiva all’ultima riportata, dove si ripetono lo schema e le sue parole realizzatrici (vedea, o, mostrava):

Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che di lì si discerne!

Come resistere alla tentazione di ricomporre allora il tutto in una struttura perfetta, correggendo in vedea il vedeva («Vedëa Troia in cenere e in caverne»)?

Antonio Medin avrebbe aperto la strada ad altri scopritori di acrostici nel poema dantesco. Ci ritornerò.

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