All’inizio bastava la parola: Mario Draghi. Quando lo scorso 3 febbraio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronuncia il suo nome lo spread, il differenziale di rendimento tra titoli di stato decennali italiani e tedeschi “termometro” del rischio paese, era a 112 punti. Dieci giorni dopo appena di 89. E su questi valori rimane fino a due settimane fa. Lo scorso 15 marzo il gap italo tedesco superava appena i 90 punti con un Btp a 10 anni che rendeva lo 0,5% o poco più. Ad inizio aprile il differenziale si collocava a 95 punti. Poi zitto zitto è risalito fino agli attuali 105 punti. Ma ciò che più conta, questo andamento è causato da un incremento dei rendimenti dei nostri Btp che oggi si attestano a 0,73%. Giusto dire che nelle ultime settimane si è verificato un generale rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato, Germania compresa. Risucchiati verso l’alto da piccoli segnali di ripresa dell’inflazione.

Il problema è che nello stesso intervallo di tempo i differenziali di paesi come Francia, Spagna o Portogallo sono rimasti stabili o si sono mossi di pochi punti. Significa che i rendimenti dei titoli italiani sono saliti ad una velocità più o meno doppio. Variazioni di rendimento nell’ordine dello 0,1% possono sembrare davvero poca cosa. Ma se si considera che ogni anno l’Italia rinnova circa un settimo del suo debito da oltre 2mila miliardi e colloca quindi sul mercato Bot e Btp per 300-400 miliardi di euro questo piccolissimo scostamento può significare pagare qualche centinaio di milioni di interessi in più. Calcolatrice alla mano, non si capisce perché, a questo punto, i tanti sostenitori del ricorso ai fondi Mef non tornino alla carica.

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