Il “grande reset” è una teoria del complotto che si è andata affermando nel corso dell’attuale epidemia di Covid. In sostanza questa teoria afferma che un gruppo di potenti della finanza e della politica sfrutterebbe l’epidemia per promuovere una legislazione liberticida e riformulare le regole della convivenza civile in senso repressivo. Come la maggioranza delle teorie del complotto, il “grande reset” è una idiozia, e non vale neppure la pena di spiegare il perché nei dettagli: basta dire che la società moderna è troppo complessa e articolata per essere riformata attraverso un disegno ordito da pochi potenti.

Ciononostante che esista in tutto il mondo una stravaganza normativa amplificata dall’epidemia è abbastanza evidente, come dimostrato dalla paradossalità di alcune sentenze di tribunale. Ad esempio, per citare soltanto uno degli ultimi casi, una persona che aveva dichiarato il falso nell’autocertificazione alla polizia durante il lockdown è stata recentemente assolta dal gup di Milano, perché in queste occasioni non ci sarebbe l’obbligo di dire la verità. Ovviamente, tutti i sostenitori del “grande reset” citano questo tipo di sentenze come espressione della resistenza al complotto messa in atto dai magistrati non collusi.

Un blog è la sede di una riflessione che l’autore intende rendere pubblica e la mia riflessione di oggi è sulla ragione della paradossalità normativa, che sembra dare sostegno alle ipotesi assurde del “grande reset”. Io penso che il Covid abbia amplificato una tendenza socio-politica autocontraddittoria che era in atto da tempo, motivata dalla promessa (della politica) e dalla richiesta (dei cittadini) di due obiettivi, entrambi desiderabili ma tra loro antitetici: la difesa dei diritti e delle libertà individuali, e la protezione dagli eventi esterni.

In sostanza il cittadino vorrebbe da una parte godere il più possibile di quei diritti (di lavorare, di studiare, eccetera) e di quelle libertà (di movimento, di riunione, eccetera) che la Costituzione gli garantisce. D’altra parte il cittadino vorrebbe essere protetto dallo Stato, usufruendo pienamente di un’altra serie di diritti costituzionali (alla salute, alle misure di sostegno sociale, eccetera). Il cittadino non ha piena cognizione del fatto che queste due richieste sono tra loro incompletamente compatibili e che possono essere realizzate soltanto parzialmente e attraverso compromessi: non possiamo né essere completamente liberi, né completamente protetti.

È in corso da tempo una evoluzione legislativa, che tende a privilegiare la protezione a discapito delle libertà individuali, che potremmo chiamare il “lento reset”, voluta non da un ristretto circolo di potenti ma dalla maggioranza dei cittadini, che pensano di poter risolvere a modo loro il conflitto tra protezione e libertà: lo Stato mi dia protezione, perché quella è difficile da ottenere in modo autonomo, e alla mia libertà ci penso da solo violando le normative che mi proteggono. Potremmo chiamare questo elementare ragionamento il “pensiero di Ferguson”, in onore all’epidemiologo inglese Neil Ferguson che aveva pubblicato lo studio a seguito del quale Boris Johnson si era convinto del lockdown, e che poi aveva dovuto dimettersi dalle sue cariche perché trovato a violare il lockdown per incontrare l’amante.

Una misura protettiva che impedisce gli incontri amorosi è evidentemente accettabile soltanto da chi pensa di poterla violare o da chi, essendo felicemente convivente, mantiene una normale vita amorosa nonostante i divieti. Il filosofo Giorgio Agamben, che ha scritto alcune delle riflessioni più intelligenti che mi sia capitato di leggere in questo periodo di epidemia, ha notato con stupore la sottomissione e addirittura la richiesta di divieti dei cittadini, ma io credo che abbia sottovalutato l’ipocrisia del “pensiero di Ferguson”: la gente ha chiesto divieti sperando in cuor suo che fossero imposti agli altri, ma ciascuno per sé stesso sperava di evaderli.

La politica è stata contenta di venire incontro alle richieste di protezione dei cittadini, sia perché questo portava voti e consenso, sia perché vietare riduce i rischi penali e civili a cui l’amministratore pubblico va incontro. Però l’impianto normativo della Costituzione non consente di sbilanciare troppo il compromesso tra protezione e libertà individuale in favore della prima. Anche se formalmente i Dpcm sono stati emessi in modo perfettamente legittimo, il loro contenuto, se portato in tribunale, si è rivelato problematico.

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