Nei prossimi giorni, le Commissioni Sanità di Camera e Senato discuteranno il capitolo Sanità del Next Generation Eu, per un totale di 19,2 miliardi di euro. Questa la mia analisi delle 50 pagine del documento inviata ai membri di commissione che sono riuscito a raggiungere: 7,9 miliardi di euro sono destinati alla Sanità territoriale e 11,82 ad innovazione, ricerca e digitalizzazione del Sistema Sanitario Nazionale.

Il Capitolo 1, “La Sanità territoriale”, contiene ottime linee di indirizzo generali, con errori pericolosi, cui rimediare: 4 miliardi sono destinati per case della salute, 1 per assistenza domiciliare (Adi) e 2 miliardi per strutture ricovero a bassa intensità di cura, gli ospedali di comunità.

1) Case della salute: dal documento pare siamo all’anno zero, ma esistono già molte di queste realtà e dobbiamo costruire basandoci sulle lezioni imparate da queste esperienze. 2.575 case della salute sono davvero troppe, una ogni 23.400 abitanti. Il professor Giuseppe Remuzzi nella sua relazione sulla riforma della legge 23 consiglia una casa per 60.000 cittadini (una casa per ogni distretto sanitario), l’Emilia Romagna ne prevede una ogni 37.500 abitanti. Come si è giunti a 2.575?

È facile prevedere che troppe case della salute saranno poi difficili da riempire delle risorse umane necessarie a renderle efficaci, polverizzando il personale sanitario della medicina del territorio. Serve invece che vi sia una massa critica di personale per ogni casa di salute, in modo da farla diventare davvero un luogo di integrazione di servizi. Queste case funzionano se hanno in numero congruo medici di Medicina generale, infermieri/e, assistenti sociali, segretari/e (mediatori culturali) e specialisti ospedalieri che lì si rechino una volta ogni tot giorni.

Nella suddivisione dei costi (4 miliardi) vi sono solo due voci: infrastruttura ed equipaggiamento. Manca il budget di avvio sulle risorse umane. La rivoluzione delle case della salute si basa sul concetto che i medici di Medicina generale siano incentivati a smettere di lavorare da soli nell’angustia di un piccolo studio medico e inizino a lavorare in forma aggregata, in modo da offrire assistenza per più ore al giorno e più giorni a settimana, consultandosi ed aggiornandosi tra loro.

Nella tabella seguente (studio del Cergas dell’Università Bocconi) si vede la tendenza a lavorare in forma aggregata in 3 regioni italiane. Le regioni che meglio hanno performato hanno convinto i medici ad aggregarsi, incentivandoli con partecipazioni alla spesa di assunzione del personale ausiliario (infermieri/e e segretari/e). I soldi risparmiati dalla costruzione di meno case della salute devono essere investiti per creare le condizioni vantaggiose per i medici che scelgono di lavorare in forma aggregata. Nelle poche case della salute lombarde (credo siano solo 13) mancano del tutto gli assistenti sociali. Senza di loro non può esistere l’integrazione vera di socio e sanitario.

2) Adi, Assistenza Domiciliare Integrata: Adi funziona se è integrata nelle case della salute, per lavorare in sinergia. Le case della salute devono avere gli spazi per ospitare Adi. Realizzare 575 strutture Adi, come previsto dal Governo, slegate dalle case della salute, va contro il concetto di integrazione. Se avessimo distretti da 60.000 abitanti, un casa della salute con centro Adi integrato per ogni distretto costituirebbe il modello di integrazione dei servizi di territorio (salvo le zone con difficoltà orografica e a bassa densità abitativa). I centri Adi devono essere nelle case della salute (curano la stessa popolazione) e collaborare con le Agenzie di Tutela della Salute (Ats), ma non essere nelle Ats. Si perpetuerebbe l’errore di affidare a strutture diverse servizi complementari per la stessa popolazione, rendendo meno comprensibile l’accesso ai servizi da parte dei cittadini.

Il personale delle case di salute può lavorare in Adi e viceversa, curando lo stesso bacino di persone. Certamente poi case della salute e Adi hanno uno stretto rapporto coordinato con la loro Ats di riferimento. Anche qui i soldi risparmiati dalla non realizzazione di strutture ad hoc per Adi possono essere impiegate per formazione e per favorire in maniera economica i sanitari che scelgano di lavorare sul territorio, oggi considerati professionisti di serie B rispetto ai colleghi ospedalieri.

3) Community Hospitals (strutture di ricovero a bassa intensità di cura): ne sono previste 753, una ogni 80.000 abitanti. Qui valgono le stesse considerazioni fatte per le case della salute. Come si è giunti a questo numero? Paiono troppi e quindi saranno piccoli e faticheremo a trovare il personale sufficiente che ci lavori in maniera tale da renderli efficaci ed efficienti. Le attuali esperienze di tanti concorsi pubblici per sanitari, che vanno deserti anche in ospedali di media dimensione, devono insegnarci qualcosa, e il rispetto del dm 70 impone di legare la qualità delle prestazione alla quantità (grossi reparti allenano meglio il personale in tutte le procedure, perché se ne fanno di più e il medico è meno volte da solo. Perciò offrono una qualità di cura migliore).

Inoltre, se sono meno, potranno più facilmente essere riforniti della tecnologia migliore per quel setting (se compro mille ecografi invece di 10.000 posso permettermi di comprarne di migliori). Seguendo il modello del distretto di 60.000 abitanti, pare coerente avere un Community Hospital ogni 2 distretti, uno ogni 120.000 abitanti, cioè, per 60 milioni di abitanti, 500 in tutto il territorio nazionale.

Quindi chiediamo lo stesso quantitativo di danaro per realizzare Community Hospital più grandi, più belli, dove ci lavori volentieri più personale sanitario. In questo modo si favorisce l’integrazione dei servizi (due case della salute lavorano con una Community Hospital e magari alcuni sanitari di case della salute fanno turni nel Community Hospital e viceversa).

Strutture sanitarie e staff dedicati alla Medicina del territorio devono essere vasi comunicanti. Ciò genera anche una più facile comprensione per i cittadini delle strutture sanitarie di territorio. Se vivo nel paese X, so che la mia casa della salute è quella e quello è il mio Community Hospital e che essi collaborano tra loro. Infine questo meccanismo facilita anche la gestione manageriale “Casa della salute-Adi-Community Hospital”. Un servizio basato sulla persona, che incontra la stessa equipe sia che venga visitato a casa sia che si rechi in casa della salute, sia al momento di un ricovero in Community Hospital: un continuum of care, come piace dire.

Questa chiave di lettura, che lega i servizi, è tra l’altro meglio comprensibile al donatore/prestatore, l’Unione Europea. Nel documento di testo, infatti, non vi è un razionale (non è mai spiegato) sul perché proprio 2.575 case, o 575 Adi, o 753 Community Hospital; né si dice quale sia il legame tra essi. Ciò rappresenta una contraddizione, dato che la parola chiave del progetto è integrazione tra i servizi territoriali.

Chi valuta il progetto in Ue potrebbe pensare (io lo penserei) che i numeri siano stati decisi per far tornare i conti e farli arrivare a 7 miliardi, la cifra richiesta, e non partendo da una analisi dei bisogni dei cittadini.

Il Capitolo 2 riguarda “Innovation, research and digitalisation of national healthcare service”. Non sono sufficientemente esperto di telemedicina, innovazione tecnologica o ricerca scientifica per dare un parere qualificato, ma ho studiato in dettaglio i disservizi informatici di Regione Lombardia e ben conosco la situazione a macchia di leopardo nazionale. Mi limito ad osservare che i software che saranno utilizzati dovranno essere uguali in tutta Italia, innanzitutto per i sistemi di prenotazione delle visite mediche e degli esami, oltre che per la telemedicina, la cartella clinica elettronica dei reparti e il fascicolo sanitario elettronico, in maniera da essere tra loro integrati e in comunicazione. Inoltre in tal modo i Big Data di 60 milioni di persone saranno facilmente raccoglibili e studiabili dal sistema pubblico, a beneficio esclusivo della salute dei cittadini italiani.

C’è ancora tempo per migliorare il Next Generation Eu sanitario, ma sempre meno.

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