– Tu devi essere Igor
– No, si pronuncia Aigor
– Ma… mi hanno detto che era Igor
– Beh, avevano torto. Non le pare?!

Nutro umanamente e professionalmente una naturale avversione verso gli alfieri del Bene e del Giusto, quand’anche costoro combattano battaglie sacrosante. Questo perché le loro guerre implicano spesso l’assunzione di posizioni cementate su verità assolute, che livellano le soggettività tentando di ridurle dentro a categorie onnicomprensive e falsamente omogenee. Una su tutte, quella de “le donne”.

L’asprezza, l’immediatezza, il riflesso duro e condizionato che Laura Boldrini ha agito nei confronti di Beatrice Venezi, rea di non aver declinato la sua professione al femminile, ha le movenze del più scontato agire direttivo-patriarcale, incarna quella posizione dalla quale duramente riportare all’ordine la donna colpevole di non aver fatto ciò che le donne “dovrebbero fare”.

Sia ben chiaro, non è la sostanza della questione, in sé rigorosamente corretta, specie in un tempo in cui il patriarcato rialza la testa mai abbassata a suon di ragazze fatte a pezzi. Il punto è semmai la perdita di lucidità, di visione di alcuni dati oggettivi e peculiari sommersi dal furore ideologico. Le accuse fatte dalla Boldrini alla Venezi scotomizzano il fatto che quest’ultima rappresenta l’esempio più nitido e cristallino di emancipazione femminile, sacrificio, talento e messa in scacco della prevaricazione maschile che si possa trovare in giro. L’accusa di essersi piegata alle imposizioni grammaticali maschiliste a mio avviso sono surreali.

Parliamo del direttore di orchestra, una posizione di potere indiscusso, un ruolo padronale per antonomasia, poggiato su di uno scranno dal quale si tiene in pugno la vita musicale degli orchestrali. Tali accuse non sono state scagliate contro la serva impaurita che passa a pulire gli strumenti mentre il maschio è fuori a fumare, quanto al padrone del vapore dai capricci o movimenti del quale dipende la resa del violinista in prima fila. “Rifletta sui sacrifici delle donne” dice la Boldrini, con un fare assiomatico che, decontestualizzando, dimentica di parlare ad una professionista che vanta un curriculum spettacolare per ottenere il quale deve aver studiato e lavorato a pancia a terra per chissà quanti anni.

Laura Boldrini chiosa con “Spero si renda conto che usare il femminile possa aiutare tante ragazze ad avvicinarsi a questo lavoro che per secoli è stato solo di uomini” e non vede, o finge di non vedere, che l’aiuto maggiore alla diffusione della cultura musicale e la più poderosa spinta ad avvicinarsi al podio di chi l’orchestra la dirige è rappresentato proprio da Beatrice Venezi: per quello che ha fatto, per come lo ha fatto, col suo lavoro di direzione e divulgazione. Dio ci scampi da quei luoghi frequentati da persone che, col dito puntato, sanno cosa le donne devono dire o fare, grondanti di desiderio di rappresentazione dell’universo mondo femminile che, in questo furore di codici del giusto agire, dimentica ciò che generazioni di maschi hanno sempre voluto dimenticare: la volontà del soggetto. Le donne non sono tutte, sono una per una.

Articolo Precedente

Un anno di lockdown per scoprire quanto siamo ciechi

next
Articolo Successivo

Il ‘femminismo corporativo’ per me è un’ipocrisia: bisognerebbe tornare alla vecchia combattività collettiva

next