Quando nei mesi scorsi, con il progetto Better Place, ho terminato il percorso formativo su quasi 300 persone nella multinazionale Caterpillar a Minerbio (Bo), ho capito che nelle quasi 150 ore di lezione avevamo fatto qualcosa di speciale. Entrare in una azienda metalmeccanica, seppur in una terra allenata ai diritti – e in una proprietà americana dove sulla gender equity nessuno si sogna di fare battutine alla Fiorello – era una novità assoluta per me, che pure parlo di questi temi da 30 anni.

Abbiamo portato in aula una popolazione aziendale prevalentemente maschile, un regno delle “tute blu” che costruiscono silenziosamente pezzi essenziali al motore economico del Paese, un luogo dove ingegneri e ingegnere, manager e strategist parlano più inglese che italiano. Un banco di prova importante per chi vuole portare il messaggio che il gender gap, oltre che una violazione dei diritti umani, rende banalmente tutti più poveri. Diciamocelo chiaramente: anche solo una manciata di anni fa era impossibile strutturare percorsi articolati di formazione su questi temi. Ancora oggi, aziende il cui nome vi farebbe impallidire, hanno il coraggio di rispondere che non serve parlare di stereotipi, sessismo, né tantomeno è utile creare condizioni avverse alle molestie sul lavoro, perché da loro – dicono con insopportabile sicumera – “queste cose non ci sono”.

Invece, per un anno intero, in questa multinazionale nel bolognese, manager, impiegati e impiegate, i componenti del settore “produzione” hanno ascoltato docenti, uomini e donne, parlare di come siamo involontariamente immersi nella realtà della “disparità di genere” sin dalla culla. Abbiamo raccontato e scambiato esperienze per accorgerci che spesso il sessismo è inconsapevole e che a depotenziare il ruolo delle donne (maschilizzandone i ruoli o dimenticandosi qualifiche e cognomi) sono gesti quasi naturali, inconsapevoli: non una volontaria ostilità alle donne, ma semplicemente una consuetudine in linea con usanze patriarcali che ci portiamo addosso da generazioni. Tutti e tutte.

Quando riesci a parlare nelle aziende, e l’uditorio (finalmente) non è composto solo da donne, capisci che il maschilismo non è una prerogativa degli uomini. Comprendi immediatamente che a fare resistenza agli strumenti che portano a una parità sostanziale e non solo formale è purtroppo spesso anche il genere femminile. L’esempio di avvilente attualità della direttrice d’orchestra Beatrice Vincenzi è emblematico: ci hanno convinte che nella lingua italiana esista un “ruolo” e che esso sia solo al maschile e in questa convinzione alcune si sentono riconosciute, accolte, affermate. Altrimenti no. Eppure, mai un grande docente (uomo) si sentirebbe degnamente qualificato solo sentendosi chiamato “professoressa”. Per molte donne invece è ancora così: un’assurdità logica, oltre che grammaticale, frutto di decenni di occultamento del ruolo delle donne, della loro presenza, del loro valore.

Creare consapevolezza nelle aziende significa incidere concretamente sulla performance: in una realtà come quella di Caterpillar Minerbio, ad esempio, il team working è continuo, la relazione uomini-donne fondamentale per garantire efficienza, qualità, competitività. Non teoria quindi, ma pratica vera delle relazioni e del rispetto che incidono sulla produttività. Ecco, allora chiariamoci su un punto: non serve che le aziende prendano un bollino qualsiasi che odora di chiacchiere, finzione e pink washing. Non servono finte sensibilità che durano l’arco di qualche ora, tipicamente l’8 marzo o il 25 novembre. Serve che il mondo industriale, imprenditoriale, aziendale, tanto quanto quello delle organizzazioni pubbliche complesse e delle istituzioni, giochino seriamente questa partita. Occorre lo facciano con soggetti preparati, con curricula, storia e studi alle spalle, capaci di percorsi non improvvisati di learning e di gender equity assessment.

A fare da assist a tutto questo una legge appena approvata dallo Stato e che recepisce una storica Convenzione, la numero 190 dell’International Labour Office (Ilo) e il cui percorso di ratifica in Parlamento è stato tenacemente guidato dalla ex presidente della Camera, l’onorevole Laura Boldrini. La Convenzione offre un quadro rivoluzionario: tutelerà lavoratori e lavoratrici a prescindere dallo status contrattuale, comprendendo anche volontari, persone in formazione, tirocinio o apprendistato e persino i lavoratori e le lavoratrici il cui rapporto di lavoro sia terminato. Si applicherà in tutti i settori, sia privati che pubblici, nell’economia formale e informale e avrà piena e intera esecuzione a decorrere dal giugno 2021 (dodici mesi dopo la data di registrazione di almeno due Stati membri).

Un’ottima notizia per l’Italia, che sarà tra i primissimi Stati ad adottare questo nuovo strumento internazionale che riconosce il diritto a un mondo del lavoro libero dalla violenza e dalle molestie (tra cui ricordiamo sono annoverate le discriminazioni di genere). Un lavoro prezioso che potrebbe portare non solo a interventi concreti nel mondo aziendale, ma risultare precursore di nuove leggi: ad esempio, per quanto riguarda il profilo penale su violenze e delle molestie nei luoghi di lavoro dove l’ordinamento italiano ancora non prevede, ad oggi, una fattispecie ad hoc. Una strada nuova e luminosa, quindi, se saremo in grado di imporla e di percorrerla evitando un rischio reale: quello che, dal protagonismo virtuoso del mondo produttivo al cambiamento culturale del Paese in materia di parità di genere, si passi ai salotti, ai cerchi magici o ai club delle amiche e degli amici più o meno vicini al potente di turno. No. Non deve essere questa la linea e nessun pezzo del Paese deve restare fuori da questo processo: serve il coraggio di stare insieme, rappresentanze sindacali e datoriali, associazioni e movimenti, mondo accademico e ogni singola lavoratrice e lavoratore.

Escludere significa fallire e non possiamo permettercelo. Non possiamo perché dalle corrette relazioni tra uomini e donne passa il futuro delle nostre figlie e delle nostre nipoti. Per costruirlo non basta un impegno di facciata, non basta allocare il “brand” sui siti che parlano di “gender equity” o definirsi femministi. Per questa svolta copernicana servono politiche, competenza, passione. Serve che ognuno faccia la sua parte per costruire un luogo migliore, né per potere, né per profitto, né per egocentrismo. Questo è l’ “8 marzo” che mi aspetto dalle imprese di questo Paese. Questo è ciò che mi aspetto dalla politica che le deve guidare.

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