L’Istituto superiore di Sanità stima che in Italia la variante inglese di Sars-Cov-2 “ha una trasmissibilità superiore del 37% rispetto ai ceppi non varianti”. Un valore – ottenuto grazie a uno studio condotto in collaborazione con ministero della Salute e Fondazione Bruno Kessler – “in linea con quelli riportati in altri paesi, anche se leggermente più bassi”, che “induce a considerare l’opportunità di più stringenti misure di controllo che possono andare dal contenimento di focolai nascenti alla mitigazione”.

La stima della trasmissibilità – che presenta una “grande incertezza statistica”, perché il range è tra il 18 e il 60 per cento – è stata effettuata tramite “un modello matematico basato sui dati di due ‘flash survey’ condotte nelle scorse settimane sulla prevalenza della variante inglese, insieme a quelli dei ricoveri di dieci regioni”. Il monitoraggio aveva evidenziato come la variante inglese fosse presente nel 17,8% dei campioni e destinato a diventare il ceppo prevalente nel “giro di 5-6 settimane”, aveva spiegato il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro.

Due giorni fa, durante la riunione tra il presidente del Consiglio Mario Draghi, i ministri e gli esperti, gli esperti dell’Istituto aveva aggiornato il dato parlando di una presenza fino al 30% e parlato di una predominanza in tutto il Paese verso la metà di marzo. Per questo, gli scienziati avevano ribadito i rischi legati a possibili aperture e sottolineato la necessità di essere prudenti. Una linea tenuta anche in Parlamento dal ministro della Salute, Roberto Speranza, che al Senato mercoledì ha rimarcato come “non possiamo abbassare la guardia” e preannunciato che anche nel prossimo Dpcm “la bussola sarà la salvaguardia del diritto alla salute”.

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