Il Nord Kivu è una delle province a est della Repubblica Democratica del Congo, al confine con Rwanda e Uganda. Ha una superficie di quasi 60mila chilometri quadrati: un po’ meno di Piemonte, Lombardia e Veneto messi insieme. Ma, a differenza del nord Italia, ha ampie zone di foresta e pochissimi collegamenti stradali, per lo più anche malandati. Questa premessa è importante per capire meglio che, quando si parla di Nord Kivu, si parla di un territorio esteso e non omogeneo.

I Kivuciens distinguono la provincia in due parti: il Grand Nord, ovvero la parte settentrionale con i territori di Beni e Butembo, e il Petiti Nord, ovvero la zona meridionale che ruota attorno al capoluogo Goma. Ed è qui che ieri è avvenuto l’assalto armato che è costato la vita all’ambasciatore Luca Attanasio, al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista del PAM Mustapha Milambo.

Il governo congolese ha apertamente accusato le Fdlr, che hanno però smentito qualunque coinvolgimento nell’assalto. I sopravvissuti hanno dichiarato che i miliziani parlavano fra loro in kinyarwanda e si rivolgevano alle vittime in swahili. Questo dettaglio ha fatto pensare alle Fdlr, ma da solo non basta ad attribuire la paternità dell’attentato: molti dei gruppi armati locali parlano infatti kinyarwanda. Senza essere necessariamente rwandesi. Quando le potenze coloniali si spartirono la regione, separarono artificiosamente le popolazioni e già allora il territorio di Rutsuru era abitato da rwandofoni. Nella da metà del secolo scorso, poi, i belgi hanno deportato popolazioni dal paese vicino per coltivare le fertili terre congolesi. Popolazioni che hanno mantenuto la loro lingua natìa, ma che oggi sono congolesi. A queste, si sono poi aggiunti a più riprese i rwandesi in fuga dal genocidio del ‘94 e successivamente altre ondate. Una popolazione stratificata, dunque, su cui si innestano i gruppi armati.

Tutta la provincia ne è infestata, specialmente al poroso confine con Rwanda e Uganda, dove la foresta è luogo ideale per nascondersi. Questi gruppi armati sono eterogenei come provenienza, composizione, scopi e numeri. Spesso sono caratterizzati da una componente tribale e solo una labile soglia li differenzia dal banditismo. Anche se in Congo di sicuro non c’è nulla (ed è bene tenerlo sempre presente), in genere questi gruppi vertono su un “proprio” territorio, che controllano, taglieggiano e sfruttano laddove ci siano risorse minerarie.

Proprio ieri il Baromètre sécuritaire du Kivu ha pubblicato il nuovo report periodico con la mappatura delle milizie presenti nell’est della Rd Congo, nelle quattro province di Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri e Tanganika. In totale, ne sono elencati 122, di cui 45 nel Nord Kivu. Nella zona in cui è avvenuto ieri l’assalto, i gruppi presenti sono quattro: le Fdlr-Foca, i Nyatura CMC, i Nyatura-Turarambiwe (Rutshuru) e l’M23.

Quest’ultimo è ciò che rimane della potente ribellione che fra il 2012 e il 2013 terrorizzò Goma e l’intera regione, agli ordini di Bosco Ntaganda e Sultani Makenga. Messo all’angolo dai Caschi blu della Monusco e dalle forze armate congolesi (FARCD), alcuni reduci del gruppo si sono riorganizzati nel 2017, ma hanno poca forza e si muovono essenzialmente attorno al monte Mikeno, che si trova vicino al luogo dell’agguato.

I Nyatura sono divisi in numerose fazioni, fra i territori del Masisi e del Rutshuru. Sono gruppi armati hutu congolesi apparsi nel 2011 (eredi di gruppi precedenti), con lo scopo di proteggere la popolazione hutu congolese dalle angherie dei miliziani mayi-mayi e dell’esercito.

Le Fdlr – il gruppo su cui si sono focalizzate le attenzioni in queste ore – sono nate nel 2000 dalla fusione di precedenti gruppi di reduci rwandesi del post genocidio: negli anni, hanno perso forza, hanno subìto scissioni, perdite e arresti, tanto che dei 6500 membri del 2008 oggi se ne stimano fra i 500 e i mille. Anche il territorio da loro controllato si è notevolmente ridotto, con la perdita della maggior parte delle zone minerarie. Il gruppo sarebbe anche a corto di munizioni ed equipaggiamento, tanto da avere una capacità operativa limitata.

Va aggiunto che le Adf, di cui alcuni parlano, sono invece collocate più a nord. Il loro nucleo storico era di origine ugandese, ma da parecchi anni colpiscono solo ed esclusivamente sul territorio congolese, specie attorno a Beni, città martire che negli ultimi anni ha assistito impotente a carneficine di una brutalità inaudita. La loro affiliazione allo Stato Islamico è stata più volte sbandierata, tuttavia non appare così lineare: l’ultimo rapporto del Gruppo di Esperti delle Nazioni Unite sulla RdCongo, uscito a dicembre, sottolinea a tal proposito come solo metà degli assalti compiuti dalle Afd siano stati rivendicati dall’Isis e spesso con macroscopici errori su luoghi e circostanze. Un’affiliazione che dunque appare quanto meno dubbia o solo di facciata. Scrivono gli esperti: “Queste incoerenze mostrano che l’Isis ha una conoscenza limitata delle operazioni condotte in RdC e che esercita su di esse un controllo limitato, o che ci sono delle difficoltà di comunicazione fra Isis e Asf, sempre ammesso che tali comunicazioni esistano. Secondo diverse fonti, tali rivendicazioni potrebbero essere opportunistiche, date le difficoltà che l’Isis incontra (…) negli altri paesi.”

Questo prezioso rapporto aggiunge anche un altro dato fondamentale: tra la fine del 2019 e l’ottobre 2020 (ovvero fino a quando gli esperti hanno raccolto elementi sul campo) sul suolo congolese erano presenti anche le forze armate rwandesi (FDR), come documentato da numerose prove, fra cui testimonianze, documenti, fotografie e immagini aeree. La zona in cui è avvenuto ieri l’assalto, a ridosso della frontiera, è dunque area battuta da gruppi diversi, tutti con il kinyarwanda come madrelingua, ed è terreno di gioco di molti corposi interessi.

(immagine d’archivio. Miliziani del Cndp, Congresso nazionale per la difesa del popolo. 2008)

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