Molto tempo fa (e, quindi, in un mondo meno digitalizzato di quello attuale) scrivevo della “morte” del curriculum vitae tradizionale, poiché era ormai in atto un processo di “tinderizzazione” dell’analisi dei CV, visto che gli uffici HR dedicavano in media all’analisi di ogni singolo curriculum soli 8,8 secondi.

Se questo era vero allora lo è ancora di più oggi, quando la selezione spesso avviene, a causa del distanziamento, tramite uno “schermo” (intenso non solo come hardware, ma anche come strumento di separazione) che divide il candidato dall’esaminatore, impendendo quel rapporto empatico che si crea nel colloquio in presenza. Tale tendenza rende ancor più importante avere un’estrema cura della propria presenza social e della propria vita virtuale.

Il cacciatore di teste, in mancanza di tutti gli indicatori su cui normalmente fa affidamento durante il colloquio (ad esempio, il linguaggio del corpo osservato in una situazione di discomfort), ricava elementi di giudizio, oggi più che in passato, dall’immagine virtuale del singolo candidato. Così, il selezionatore (prima o dopo il colloquio, a seconda se voglia “farsi un’idea” su come orientare il colloquio o se, invece, non preferisca verificare ex post la sincerità delle risposte date) cercherà sul web elementi per comprendere meglio la personalità del candidato (la cosiddetta web reputation), quasi disinteressandosi del suo comportamento nel mondo reale.

Non rappresenta una soluzione per ovviare a tale controllo il non avere alcun profilo social, poiché ciò viene visto con sospetto, inducendo l’idea che si tratti di una persona che “ha qualcosa da nascondere”.
In realtà, ogni singolo candidato alla ricerca di un’occasione di lavoro dovrebbe avere un profilo social e, soprattutto, prestare attenzione alla propria web reputation: la ricerca di personale avviene sempre di più grazie ai social stessi, cioè analizzando le competenze dichiarate, le esperienze lavorative maturate, gli endorsment ricevuti e le attività svolte su ogni piattaforma social.

Insomma, è ormai impossibile affrontare il mercato del lavoro senza avere una chiara idea e un controllo della propria immagine web (quello che io chiamo “IO SOCIAL”), data dal totale di ciò che Internet racconta di ciascuno di noi.

Il nostro IO SOCIAL è il risultato di quanto si ottiene digitando su un motore di ricerca nome e cognome, sommato a tutte le evidenze che emergono tramite l’analisi di Facebook, Twitter, Instagram o Linkedin (per citare i Social più noti e diffusi).

Non va dimenticato che il nostro IO SOCIAL si sovrappone, senza coincidere, con la nostra immagine reale fatta, invece, di ciò che la cerchia più ristretta di chi ci conosce vede di noi nel mondo reale.
È, quindi, come se fossimo sdoppiati: da un lato l’IO SOCIAL e dall’altra il nostro IO REALE.

Il primo è generalmente disponibile per chiunque lo cerchi in rete (e, quindi, per i cacciatori di teste) e può non essere creato solo da noi; il secondo è privato e conosciuto da pochi. Questo sdoppiamento è spesso sottovalutato e soprattutto è spesso sopravvalutata la nostra abilità nel gestire le informazioni che circolano in rete su di noi, come se avessimo le stesse capacità di memoria e di analisi infinite che hanno i server del web.

Spesso facciamo gli “struzzi”, perché fare una verifica su ciò che il web dice di noi; spesso giustifichiamo questa “innocente bugia” (seguendo l’insegnamento di Robert Trivers sulla “Follia degli stolti”) sostenendo che “non si ha nulla da nascondere” e scordandoci, così, di tutte le foto relative a fatti privati (che tali dovrebbero rimanere) che abbiamo condiviso in rete nella nostra vita o, peggio, dimenticando di aver scritto post o risposto con frasi che, in un certo contesto, potevano essere sensate e corrette, ma che, vista la velocità con cui cambiano i giudizi della rete, oggi possono essere imbarazzanti.

I casi di post inopportuni che hanno influenzato in modo negativo l’IO SOCIAL di una persona sono infiniti. Insomma, procediamo con una verifica dell’immagine che il web restituisce di noi e confrontiamo l’IO SOCIAL che ne emerge con la persona che siamo nella realtà. Una volta compresa l’immagine che il web dà di noi si può passare alla fase di gestione, con un ripensamento della nostra presenza in Rete: ad esempio eliminando gli accounts non più utilizzati, chiedendo la cancellazione dei nostri dati non utili o non attuali o lavorando con la creazione di notizie positive sulla nostra vita professionale.
Dunque, pensiamo che il nostro IO SOCIAL è – volenti o nolenti – più facilmente accessibile e, quindi, soggetto a giudizi, di quanto non lo sia il nostro IO REALE e che sul primo si basano principalmente le nostre opportunità di lavoro future.

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