Negli ultimi dieci anni, vari scenari hanno sensibilizzato il mondo sui rischi pandemici. Quello elaborato da Air Worldwide – società specializzata in modelli di catastrofi – stimava che una epidemia influenzale pericolosa come quella del 1918 avrebbe potuto produrre tra 21 e 33 milioni di vittime nel mondo. Una mortalità compresa tra 270 e 430 per centomila abitanti.

Si trattava di uno scenario affatto ragionevole, dove si teneva conto dei molti fattori di progresso che differenziano il mondo odierno da quello di cent’anni fa, giacché la mortalità della Spagnola viene stimata attorno a 2.500 per centomila, a scala globale. E i dati della John Hopkins University indicano come il mondo sia fortunatamente lontano da questo scenario, poiché le attuali vittime sono circa 1,6 milioni, circa 20 ogni centomila abitanti.

Il modello indicava anche i luoghi dove con maggiore probabilità si sarebbe accesa la miccia: Cina, India e Indocina; assieme ad alcuni spot africani, prossimi alle sorgenti del Nilo. E, al momento, la genesi sembra confermata.

La distribuzione geografica dell’impatto, tuttavia, sovverte completamente quanto atteso. A 13 mesi da inizio pandemia, lo scenario di Air-Worldwide prefigurava – per la Cina e la maggior parte dei paesi dell’Africa centrale e del Centro America – tra 50 e 100 vittime ogni centomila abitanti. Invece, il conto da pagare è stato, finora, dieci volte meno caro.

Non così per i paesi dell’occidente progredito dove – sullo stesso orizzonte temporale – si prevedevano meno di 25 vittime per centomila abitanti; e meno di 50 a fine pandemia. Che cosa accade, invece? Gli Stati Uniti, con 91 vittime per centomila abitanti, moltiplicano per quattro questo scenario, così come l’Italia, che ha superato quota 100 e, a meno di un anno dall’inizio del disastro, si avvicina a quota 110.

Al contrario, l’India resta a quota 11; i paesi africani, pur colpiti, mantengono una mortalità assai contenuta; e in estremo oriente – comunista e non – la mortalità rimane tuttora uno o due ordini di grandezza inferiore a quella occidentale. Scendendo di scala, il Belgio – faro dell’Unione Europea – traguarda quota 160.

Per spiegare il fenomeno, la metafora usata da due ricercatori della Banca Mondiale, Schellekens e Sourrouille, è abbastanza convincente. Come un missile a infrarossi – un’arma inesorabilmente guidata sull’obiettivo dal calore emesso dal bersaglio stesso – Covid-19 accelera verso i bersagli più vulnerabili della società affluente. Gli anziani.

La metafora varrebbe non solo per i soggetti più vulnerabili nel mondo ricco, giacché gli individui più vulnerabili nel resto del mondo non sono più immuni dei ricchi. Tuttavia, nonostante l’ampia diffusione del virus, la mortalità rimane altamente concentrata nei paesi ad alto reddito. I paesi poco sviluppati rappresentano circa l’85 percento della popolazione mondiale, ma piangono meno del 20 percento delle vittime della pandemia.

L’inesorabile bersaglio dell’Angelo Sterminatore – greve ma solenne allegoria di un comico genovese – si riproduce tal quale anche a scala regionale. La Lombardia, con le stesse dimensioni del Belgio, traguarda 240 vittime per centomila abitanti. Tra le aree metropolitane che contano, è quella più fragile: tre volte più letale della Grande Londra e dell’Ile de France parigina, il 30 per cento più dello Stato di New York. La Calabria, per contro, è ferma a 21 vittime ogni centomila abitanti, dieci volte di meno rispetto alla Lombardia: il Pil pro-capite è un terzo di quello lombardo, il reddito per abitante meno della metà di quello di un cittadino del Nord-Ovest, la sanità ostentatamente malmessa.

L’insolita disuguaglianza viaggia nella solita direzione, ma ha invertito il verso. Il mondo è soggetto a due diverse pandemie? L’eccessiva inclinazione dei modelli di scenario a riprodurre le peculiarità dei paesi ricchi non va d’accordo con la demografia. Le simulazioni di infettività e mortalità suggeriscono che la quota dei paesi in via di sviluppo potrebbe anche aumentare anche di un fattore tre (dal 20 a più del 60 percento). Fattori ambientali e specifici influenzeranno questi risultati ma è improbabile che li ribaltino. La qualità dei dati ha certamente un ruolo nello spiegare questa “eccessiva disuguaglianza” e, senza dubbio, la pandemia deve ancora fare tutto il suo corso attraverso le distribuzioni per età del mondo. Ma, più si va avanti, più l’apparente anomalia storica del disastro si conferma.

Forse è troppo presto per le spiegazioni. Fioccano le ipotesi di lavoro: ambiente, inquinamento, stile di vita, latitudine, assieme a proporzione di anziani, apporto calorico e diffusione del diabete. Ma sono soprattutto le impressioni epidermiche, senza fondamento scientifico, a occupare militarmente social e media. Dove, talvolta, si oltrepassa il confine dell’assurdo.

Nella trasmissione radiofonica serale di un canale privato a diffusione nazionale, l’illustre ospite ha recentemente sentenziato che “i meridionali resistono di più al coronavirus perché sono africani bianchi: è una questione genetica”.

Non ricordo chi sia, ma è stato presentato quale personaggio istituzionale in servizio permanente effettivo, non come tifoso di una frangia demenziale dell’ultra-tifo calcistico. A cui, forse per mancanza di tempo o per svista culturale, mancava solo l’accenno alle teorie lombrosiane.

A loro volta, i paesi ricchi si stanno accaparrando l’intera produzione di vaccino dei prossimi due anni. Come scrive il Sunday Times: “La maggior parte dei poveri del mondo affronterà il coronavirus senza un vaccino perché i paesi ricchi stanno accumulando dosi sufficienti per immunizzare le loro popolazioni tre volte”. Questa prepotenza basterà a invertire l’impatto dell’Angelo Sterminatore, del tutto improvviso e imprevedibile per le classi dirigenti dell’occidente e per la fazione più edonistica di quelle società?

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