Stabilire quanti siano i rom in Italia senza prima definire i criteri secondo i quali un soggetto possa essere definito tale, risulta un’impresa fuori da ogni logica.

È rom chi parla il romanès? Oppure chi pratica determinate tradizioni legate ad una lontanissima cultura orientale? Lo è chi vive sotto una tenda, dentro una roulotte o in lussuose ville dallo stile marcatamente kitsch? È rom semplicemente chi si definisce tale? E se un giorno cambiasse idea? E il figlio di un matrimonio misto come andrebbe considerato?

Una prima, abbozzata risposta ci viene dalle istituzioni. Sono sicuramente rom quanti vivono nei “campi nomadi”. Gli altri? Difficile dirlo.

Nel 2004 Stefania Pontrandolfo pubblicò un testo sui rom di Melfi dal titolo Un secolo di storia. Sei anni dopo la Gazzetta del Mezzogiorno riprese i dati della ricercatrice: “È un universo difficilmente decifrabile dal punto di vista statistico, ma un fatto è certo: il ‘cuore’ della presenza dei rom in Basilicata è Melfi, in provincia di Potenza, che ne diventa addirittura la capitale italiana”. In piena ‘Emergenza Nomadi’ gli stessi ricercatori restarono basiti: improvvisamente dei rom nessuna traccia a Melfi. E questo non perché le famiglie rom fossero andate via dalla cittadina della Basilicata, ma semplicemente perché avevano ritenuto opportuno non dichiararsi più tali. Le circostanze non lo consentivano e improvvisamente Melfi da “capitale degli zingari” si ritrovò orfana della comunità.

L’identità rom, quindi, come ogni altra identità è plurima, variabile alle situazioni storiche e alle vicende personali. È sicuramente ancora più fluida delle altre perché non legata ad una posizione giuridica, ad un passaporto, ad una cittadinanza. Se vivi dentro una baracca, nel corso di un censimento mattutino sei costretto a dichiararti rom, ma quando nel pomeriggio dal campo vai a lavorare all’esterno, probabilmente non lo espliciti più. Pertanto, in un’ipotetica intervista volta a quantificare la presenza di soggetti rom, se la stessa si svolgesse nell’indirizzo di residenza dell’intervistato avrebbe un risultato diverso se si realizzasse nel suo posto di lavoro.

Per provare a sciogliere il nodo dell’identità rom, base di partenza per una definizione quantitativa, il deputato Riccardo Magi presentò l’11 dicembre 2019 un’interrogazione a risposta scritta al ministro per le Pari Opportunità e per la Famiglia chiedendo: “quali criteri adotti l’Ufficio Nazionale Anti discriminazioni Razziali (Unar), punto di contatto per l’applicazione della ‘Strategia Nazionale per l’inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti’, per definire oggi in Italia un soggetto come parte dell’etnia dei ‘rom’, dei ‘sinti’ e dei ‘caminanti’; qualora il criterio adottato per definire un soggetto come parte dell’etnia ‘rom’, ‘sinti’ e ‘caminanti’ risultasse l’autocertificazione, quante siano le persone che in Italia, secondo i dati in possesso dell’Unar, si siano rivelati tali, e quali siano le specifiche procedure che hanno portato negli insediamenti riconosciuti formalmente o meno alla formalizzazione di ogni singola autodichiarazione”. All’interrogazione non è seguita alcuna risposta. Perché probabilmente non esiste.

Non sappiamo quindi in base a quale criterio secondo il Consiglio d’Europa i rom in Italia siano circa 170.000 corrispondenti allo 0,23% della popolazione italiana. Numero che, secondo un effetto a fisarmonica, periodicamente fluttua senza ragione in negativo o in positivo.

Abbiamo però tre certezze. La prima è che le persone identificate dalle istituzioni come rom e presenti negli insediamenti formali e informali sono circa 20.000.

Sappiamo con altrettanta certezza che su questi 20.000 individui si tengono aggrappati programmi europei, strategie sociali, piani inclusivi, fondi dedicati, agenzie, osservatori, esperti, associazioni etniche e non, cooperative sociali, istituti di ricerca e analisi. Un manipolo di baraccati sui quali si fonda un sistema sociale ed economico impressionante.

La terza certezza è che, alla luce dei diversi flussi migratori hanno interessato il nostro Paese a partire dal XV secolo, si indicano almeno 22 macro comunità ascrivili alla “galassia rom”.

Parlare allora di un popolo rom è sicuramente inappropriato considerato che sono gli stessi gruppi rom ad escludere altri da un’unica categorizzazione, enfatizzando differenze linguistiche e culturali e non riconoscendo come “autenticamente romanì” comportamenti di altre comunità, diverse per storia, dialetto, usanze, tradizioni. Più corretto sarebbe parlare di comunità, o meglio di “un mondo di mondi”, come ebbe a definirlo l’antropologo Leonardo Piasere nel 1999, dai contorni confusi e dai tratti sfuggenti. Che scappa di mano proprio nel momento cui cerchi di afferrarlo.

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