“Rivedere gli orari delle città è una bella frase da dire, ma realizzarla è molto complicato, perché le parti coinvolte, dal pubblico al privato, sono tantissime. Non è una cosa che si fa in un mese”. Suona quasi come un’ammissione quella dell’assessore ai trasporti dell’Emilia Romagna, Andrea Corsini, dopo che per mesi l’idea di cambiare i tempi di scuole, uffici e negozi è sembrata la soluzione a tutti i mali della prima ondata di Covid. Ne hanno parlato in tanti, dal sindaco di Milano Giuseppe Sala ai governatori Fontana, Cirio e Bonaccini, fino alla ministra Paola De Micheli e a diversi esperti di mobilità urbana. Ma a più di sei mesi di distanza, e con mezza Italia di nuovo in lockdown, tutto (o quasi) è rimasto come prima, nonostante le leggi per farlo a livello locale già ci siano. E ora che tra dicembre e gennaio gli studenti di medie e superiori torneranno in classe grazie al calo dei contagi, riaffollando i mezzi pubblici, il rischio è che il Paese si faccia trovare ancora una volta impreparato alla sfida.

Le proposte (mancate) della politica – Di rivoluzionare le abitudini dei cittadini per consentire la convivenza con il virus se ne è discusso sin ad aprile, con l’Italia ancora in lockdown totale e le istituzioni al lavoro per organizzare la ripartenza. Per evitare assembramenti bisognerà “differenziare gli orari delle città”, ha sostenuto il presidente emiliano Stefano Bonaccini. Che è tornato sul tema a giugno, rispolverando l’idea e lanciando un patto con i sindaci per elaborare un piano entro “6-12 mesi”: “La riapertura dei negozi dovrà avvenire con scaglionamenti di orari, con un arco temporale più lungo per fare i turni e perché sui mezzi pubblici potrà salire molta meno gente di prima”. Ma ad oggi quasi nulla si è mosso, se non lato scuola e incentivi allo smart working. Come ben poco si è mosso in Lombardia, la regione più colpita dalla prima ondata e ora dalla seconda, dove a maggio il governatore Attilio Fontana ha lanciato una proposta che prevedesse negozi non alimentari aperti solo dalle 11 e ingressi flessibili dalle 8 alle 12 per negli uffici. Per poi a giugno tentare di passare palla e responsabilità al governo: “È necessario un intervento nazionale per scaglionare gli orari di lavoro e di vita delle città se non vogliamo creare una situazione ingovernabile. A oggi non ho avuto risposte”. Nel mezzo è successo che il confronto con le categorie coinvolte non ha portato a definire soluzioni condivise. E la giunta ha scelto di non imporsi.

Ma anche i sindaci non sono andati molto più in là dal cambiare gli orari degli uffici del loro stesso comune. Come a Milano, dove Palazzo Marino oltre allo smart working ha introdotto una flessibilità di ingresso al lavoro dalle 7.30 alle 13, con possibilità di recuperare ore al sabato. O come a Bergamo, dove l’esigenza “di ripensare le città nello spazio e nel tempo” di cui ha parlato Giorgio Gori a maggio si è sinora tradotta in concreto solo in misure come l’estensione e la flessibilità degli orari dei servizi comunali, il decentramento dei servizi nei quartieri e la prenotazione degli appuntamenti online. Misure analoghe ad altre iniziative spot, come quella di Vincenzo De Luca che a metà ottobre, prima che l’ultimo dpcm del governo spingesse di nuovo sullo smart working, aveva raccomandato che l’ingresso negli uffici pubblici della Campania avvenisse per fasce orarie a seconda dell’iniziale del cognome. Eppure gli strumenti per intervenire, specie in una fase di emergenza come questa, già ci sono. “Scaglionare gli orari si può fare, si poteva e si deve fare al più presto”, spiega a Ilfattoquotidiano.it il rettore dell’università di Bergamo e docente di diritto amministrativo Remo Morzenti Pellegrini, che per le prossime settimane auspica un’ulteriore differenziazione delle misure sul territorio. “I sindaci ad esempio possono emanare delle ordinanze ad hoc, ma decisioni così importanti non devono essere calate dall’alto. Serve un confronto con le parti sociali”.

Le resistenze di sindacati ed esercenti – Un confronto è proprio quello che chiedono i sindacati. “Il tema degli orari è regolato dai contratti nazionali di lavoro – fa notare la segretaria lombarda della Cgil Elena Lattuada -. Non c’è problema ad aprire una discussione per rimodularli in una fase di pandemia, ma non ci possono essere provvedimenti di imperio da parte di comuni, Regioni o governo. Bisogna arrivare a un accordo che sulla base delle norme contrattuali tenga conto delle esigenze organizzative delle attività produttive e dei lavoratori”. Le resistenze da smussare sono tante, come nel settore del commercio, già duramente colpito dalla contrazione dei consumi e dalla stretta anti-Covid: “Non possiamo decidere a tavolino quando i consumatori vanno nei negozi o al ristorante – sostiene Carlo Massoletti, vicepresidente di Confcommercio Lombardia -. Siamo disposti a parlare di orari, ma è difficile intervenire sui flussi dei consumi, dobbiamo seguirli se vogliamo fare bene il nostro lavoro. È il consumatore a dettare i ritmi del nostro business”. Ma in una fase di emergenza non è lecito far abituare il consumatore ad andare in negozio due ore più tardi? “Così rischiamo che il consumatore vada a comprare su Internet, ci sono già diverse distorsioni competitive”. Che la questione sia complessa lo ammettono tutte le parti in causa. “Sugli orari della città ci sono tanti studi belli, ma da convegno – dice l’assessore alla mobilità del Piemonte Marco Gabusi -. Abbiamo difficoltà a modificare le regole nelle scuole e negli uffici pubblici, figuriamoci a toccare quelle dei privati. Serve una moral suasion che si fa in anni”. E così l’unico vero tentativo di concordare una nuova distribuzione dei tempi finora è stato fatto solo con il mondo della scuola.

Il nodo scuola – Gli studenti sono una delle voci principali che vanno a impattare negli orari di punta sull’affollamento di tram, autobus e metropolitane: in Italia solo quelli delle superiori (oggi a casa) sono più di 2,5 milioni. Già a giugno scorso il ministero dell’Istruzione, nel Piano scuola 2020-2021, aveva previsto la possibilità di “una differenziazione dell’inizio delle lezioni”. I tavoli di lavoro, a cui si sono seduti i dirigenti ministeriali di ciascuna Regione, i comuni, le province, le aziende di trasporto e gli assessori competenti per trovare una quadra, però, non sempre hanno centrato l’obiettivo. Ilfatto.it ha chiesto a viale Trastevere i dati – suddivisi per Regione – di quante scuole abbiano effettivamente cambiato i propri orari, ma non è arrivata alcuna risposta. In Lombardia, secondo i dati dell’ufficio scolastico regionale – lo ha fatto il 55,9% degli istituti monitorati, poco più della metà. Ma solo per evitare assembramenti all’ingresso, non in una logica pensata per impedirli nel tragitto o negli snodi principali delle città. C’è chi ha previsto un primo turno alle 8 e un secondo alle 10, chi il doppio ingresso tra le 8 e le 9, chi più ingressi distanziati di pochi minuti a partire dalle 7.30 (soprattutto nei grandi centri urbani, dove i mezzi pubblici possono fare più corse in tempi ravvicinati). Soluzioni che non è detto saranno sufficienti nelle prossime settimane, quando gli studenti delle superiori potrebbero tornare in classe con una capienza di autobus e tram ancora al 50% (a differenza del limite all’80% autorizzata a settembre dal Comitato tecnico scientifico e poi revocata dall’ultimo dpcm). “In provincia di Bergamo avevamo concordato con le scuole, prima del nuovo lockdown, un modello con due ingressi, alle 8 e alle 10 – spiega il direttore dell’Agenzia per il trasporto pubblico locale del Bacino di Bergamo Emilio Grassi -. Tale scaglionamento è stato sufficiente con la capienza all’80%. Ora con la capienza ridotta ulteriormente, sarà necessario che un 40-50% delle lezioni sia a distanza”. E perché non introdurre un terzo scaglione alle 12? “Rischieremmo di creare problemi organizzativi alle scuole e una sovrapposizione tra ingressi e uscite”.

L’Emilia verso i turni pomeridiani – Su questo le Regioni si sono subito rimesse al lavoro, anche se come sempre non tutte vanno alla stessa velocità. “Stiamo per avviare l’interlocuzione con i provveditorati”, fa sapere Gabusi del Piemonte, “Però io credo che sia un tema nazionale. Molte scuole rischiano di non avere bidelli o docenti, ci sono anche problemi contrattuali”. L’assessore assicura quindi che la sua Regione sta continuando ad aumentare il parco mezzi, dopo aver attivato da settembre a oggi 3.729 corse autobus aggiuntive e la flotta è stata potenziata con 83 bus turistici a noleggio. In Veneto Luca Zaia continua a reputare la didattica a distanza l’unica soluzione possibile, mentre l’Emilia Romagna intende fare da apripista sui turni pomeridiani: “Dopo i ritardi di settembre, abbiamo attivato un tavolo per ogni provincia”, assicura l’assessore emiliano Corsini. L’obiettivo è arrivare anche a “turni differenziati tra mattina e pomeriggio”. Una possibilità già consentita dal ministero ma finora rimasta praticamente solo sulla carta. A suo parere, infatti, “la soluzione non può essere solo quella di aumentare gli autobus. Noi abbiamo 350 mezzi in più che circolano sulle strade, ma superata una certa soglia si arriva alla saturazione di spazi e tempi”. A chiarire la tabella di marcia è l’ufficio scolastico regionale: entro la prossima settimana si svolgeranno le conferenze provinciali con tutte le parti coinvolte, in modo tale da raccogliere tutte le richieste dei presidi e capire quante risorse aggiuntive serviranno. Poi si aspetterà il via libera sulla riapertura da parte del governo per poter attivare i nuovi orari. “Riorganizzarli è materia di enorme complessità, prima ancora che dal punto di vista sindacale, dal punto di vista sociale per l’impatto sulle famiglie”, avverte il dg dell’ufficio scolastico regionale dell’Emilia Stefano Versari. Che però assicura: i turni pomeridiani sono fattibili. “Stiamo valutando caso per caso qual è la soluzione migliore. Resta il fatto che ci si può arrivare solo con la piena collaborazione delle istituzioni”.

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