Non ho mai nutrito particolari simpatie per Emmanuel Macron e il suo movimento En Marche, così come ho sempre ritenuto un divertissement mediatico per radical chic l’insostenibile campagna “Je suis Charlie”, osanna rituale di benpensanti dedicata alla santificazione di un mediocre giornaletto grossolano, incapace di portare avanti un ficcante discorso di satira confusa con rutti, peti e stereotipi primitivi (una disgustosa vignetta attribuiva i morti del dopo terremoto di Amatrice alla “mafia”).

Inizialmente Macron pareva un Renzi semplicemente più evoluto e forse, da una prospettiva economica e sociale, lo resta. Tuttavia è impossibile non notare una profonda differenza legata alle radici di appartenenza e al modo di rapportarsi all’odio. Mentre in Italia piccoli satrapi lo alimentano soffiando sul vento delle paure dei cittadini, o lanciando pelosi ricatti elettorali, da oltralpe ci è giunto un discorso laico che non ammicca ad estremismi. Che non punta agli orticelli, ma guarda alle basi antiche dello Stato.

Mentre i movimenti paramacroniani locali, vedi Italia Viva, sono ormai morti e cercano di allontanare il tempo in cui il vento elettorale li dissiperà, il presidente francese ha difeso il “diritto alla blasfemia“. Quando i tagliagole hanno decapitato un maestro egli ha evocato la laicità della Nazione.

Parole nuove in un’Europa che occhieggia a derive confessionali, nostalgie zariste putiniane che odorano di pope e uomo forte, italianissimi riti madonnari in cerca di benedizioni clericali, ammiccamenti verso formazioni confessionali che sul dogmatismo e sulla discriminazione basano la loro forza da parte di politici italiani sedicenti di sinistra e del pollaio di intellettuali che aspirano a diventarlo.

In pieno clangore confessionale Macron ha trovato il coraggio di ribadire la differenza tra l’Islam repubblicano e quello che, invece, pretende di fagocitare il diritto e la sua laicità nella gola delle sure coraniche. Egli ha ricordato che la religione di Stato, in Francia, parla un verbo laico. Francia che, non solo dopo la recente strage di Notre Dame a Nizza, ma da anni, si trova in uno stato di guerra. Guerra tra chi ha introiettato i principi costituzionali e chi invece vuole ignorarli e distruggerli in nome di un Dio che, probabilmente, lo incenerirebbe.

La Francia fronteggia l’odio che passa dall’uso della religione (o per meglio dire dall’espunzione di alcuni paragrafi particolarmente violenti incisi nei testi sacri delle religioni monoteiste) utilizzata come strumento per dare sfogo e forma a pulsioni umane violente e distruttive, radicate nella storia di uomini malvagi che cercano in aggregazioni parareligiose un pertugio per farle strabordare dando così un senso, tragico, a vite fondate sulla ruminazione dell’odio.

Macron, fronteggiando l’odio, non ha ingaggiato lo scontro di religioni, ma ha utilizzato la laicità per smascherare i veri volti di questi assassini, indicando da che parte si sta quando c’è una guerra, lasciando da parte Dio. Dunque, oggi più che mai, urge dire no alla banalizzazione caramellosa del “Je suis”, ma interrogarci, laicamente, sul perché debba essere un pessimo giornalucolo a ricordarci chi sia Erdogan, il Califfo che ha dichiarato guerra ai curdi, adulato da chi finge di non vedere le torme di fanatici che quest’uomo aizza.

Quello di Macron è stato il discorso di uno statista, come noi non ne ricordiamo da anni. E non mi si fraintenda: questo non lo eleva né lo santifica umanamente. Semplicemente ha incarnato una figura che, nel nostro agone politico intriso di pelose convenienze elettorali, manca.

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