di Diego Battistessa*

Mancano pochi giorni alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, elezioni che vedranno sfidarsi il democratico Joseph (Joe) Biden e l’attuale presidente in carica, il repubblicano Donald J. Trump. Spesso si fa riferimento al processo elettorale statunitense come uno dei grandi esercizi democratici del mondo, un evento che catalizza l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica internazionale.

In queste ultime settimane però abbiamo assistito ad altri due grandi processi democratici nel continente americano: il 18 ottobre in Bolivia e il 25 di ottobre in Cile. Due realtà diverse, due voti cruciali per i rispettivi contesti politici e sociali, che radicano nelle proteste scoppiate ad ottobre 2019. Da un lato la Bolivia in uscita (apparentemente) dal periodo di governo interino presieduto da Jeanine Áñez Chávez, iniziato il 12 novembre scorso dopo le contestate elezioni che avevano dato la vittoria al presidente uscente, Evo Morales.

Questa volta il processo elettorale si è svolto senza gravi scontri e si è vista un’altissima partecipazione popolare. Il tribunale supremo elettorale (Tse) ha sancito la vittoria alla prima tornata (senza quindi necessità del ballottaggio) del candidato del Movimento al Socialismo – Mas, Luis Arce, con più del 55% delle preferenze. Un voto univoco e chiaro che segna un solco enorme, 26 punti percentuali di distacco, dal principale partito dell’opposizione, Comunidad Ciudadana guidato da Carlos Mesa.

Il Mas, partito di Evo Morales, torna dunque al governo; ma questione distinta riguarda un eventuale partecipazione dello stesso Evo, nel nuovo gabinetto di Luis Arce. Una parte dell’opposizione, quella che fa riferimento a Luis Fernando Camacho (e che si colloca più a destra nello scenario politico boliviano) promette però mesi turbolenti e il panorama nazionale sembra ancora non completamente delineato.

Camacho è il leader che rappresenta gli interessi di quella che viene definita in Bolivia la Media Luna (mezza luna) cioè la parte orientale del paese “bianca e ricca” che si contrappone storicamente all’ovest “indigeno e impoverito”. Alla zona della Mezza Luna fanno riferimento i dipartimenti di Tarija, Beni, Pando e Santa Cruz, quest’ultimo considerato come la base operativa di Camacho. Un nodo cruciale sarà sciolto nei prossimi giorni e riguarderà non tanto il riconoscimento della vittoria del Mas da parte degli oppositori (già avvenuta da parte di Mesa e di Añez) ma la distribuzione dei ministeri e del peso politico relativo agli stessi. Luis Arce avrà l’ingrato compito di riconciliare quelli che vengono ormai indentificati come i due Mas, quello pro Evo e quello che pensa che Evo debba farsi da parte, oltre alle decine di collettivi e attori locali che rivendicano protagonismo e spazio d’azione.

Dall’altro lato il Cile, che al grido di apruebo ha affossato con un plebiscito storico la costituzione che vigeva dai tempi della dittatura di Augusto Pinochet (1973-1989). I cileni sono stati chiamati ad esprimere due pareri. Il primo riguardava la soppressione della fonte primaria delle leggi dello Stato in pro della creazione di una nuova costituente che potesse dare voce e forma alle esigenze del popolo: proteste catalizzate nelle proteste di ottobre 2019 conosciute sotto il nome di Estallido. In questo primo caso il risultato è stato nettissimo e incontrovertibile: il 78% dei cileni ha votato per cambiare la costituzione.

Il secondo quesito riguardava la conformazione dell’eventuale nuova Assemblea Costituente. Da un lato la destra spingeva perché fossero gli attuali parlamentari insieme ad altri membri eletti ad hoc (50% e 50%) a redigere il documento, dall’altro la sinistra ha spinto perché si realizzasse un’elezione popolare per designare ex novo tutti i membri della nuova costituente. Anche in questo secondo caso, i partiti della colazione di destra Chile Vamos, di cui è espressione l’attuale presidente Piñera, sono stati sconfitti.

Si apre dunque un nuovo capitolo della transizione democratica cilena che vedrà ad aprile 2021 le votazioni per eleggere i membri della costituente e l’entrata in vigore della nuova Carta Magna non prima del 2022. Siamo di fronte dunque a due esercizi di profonda maturità democratica che mostrano un’altra faccia dell’America Latina forse non abbastanza raccontata.

Se è pure vero che la parola democrazia e le sue sfumature possano differire tra Europa e America Latina (trovando in quest’ultima regione delle variabili che si discostano anche molto dal nostro sentire), rimane però un punto importante che Zovatto e Tommasoli rendono chiaro nel loro scritto “La calidad de la democracia en America Latina”: nella regione in generale si è radicato e consolidato uno spirito democratico che ha dimostrato in più occasioni di essere forte e resiliente (anche in tempi di Covid-19).

*Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid. Latinoamericanista specializzato in Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Migrazioni.
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