Dopo la decisione della presidente ad interim Jeanine Añez di non presentarsi alle elezioni per non intralciare i partiti contrari al ritorno del Mas (Movimiento al Socialismo) dell’ex presidente Evo Morales, il confronto alle urne del 18 ottobre sarà tra “Lucho” Arce Catacora, candidato presidenziale del Mas ed artefice del boom economico boliviano – coadiuvato da David Choquehuanca, che rappresenta l’ala dura del Movimento – opposto a Carlos Mesa, il rivale più agguerrito di Morales lo scorso anno, e Luis Fernando Camacho, il candidato dell’estrema destra che si è contraddistinto nella repressione dei sostenitori di Morales dopo la sua cacciata.

Una strage che ha prodotto una trentina di vittime, in un clima di terrore e di propaganda tipico di un regime autoritario. La Añez ha ovviamente approfittato della quarantena imposta dalle misure anti Covid – che ha causato finora 139.000 contagi e 8350 decessi, amplificati da strutture sanitarie al collasso – per posticipare le elezioni di maggio ad ottobre.

Il percorso del gambero neo-liberista

Dopo l’annullamento del risultato delle elezioni di ottobre 2019 – dove era prevalso Evo Morales su Mesa nel primo turno con il 47% dei voti dopo un’interruzione nel conteggio – e il forzato esilio del presidente in carica prima in Messico poi in Argentina, il governo provvisorio ha sancito il ritorno a politiche economiche liberiste e di fatto la cancellazione dei principi socialisti basati sulla supremazia indigena, in una Nazione dove le etnie costituiscono il 55% della popolazione (30% Quechua 25% Aymara) affiancate dal 30% di Mestizos (meticci frutto di unioni tra indigeni ed europei) e il 15% di bianchi.

Difatti il nocciolo della questione è proprio nella crociata anti-indigenista propugnata da Añez e Camacho, i cui sostenitori, spalleggiati da polizia ed esercito, successivamente alla partenza di Morales assalirono i suoi uomini, stracciando le bandiere Wiphala che sono il vessillo degli indios, cacciando gli studenti indigeni dalle università e infine sparando sulla folla a Cochabamba, dove rimasero uccisi una decina di manifestanti. Il tutto condito dalla rappresentazione per eccellenza del conflitto religioso: le Bibbie sbandierate dalla nuova presidente e Camacho, come simbolo della riscossa del Cristianesimo contro paganesimo e stregoneria.

Un classico, per la gioia della minoranza bianca, che ha visto nel cosiddetto golpe di autunno una chance di ritorno alle origini, quando erano i gruppi finanziari locali e le multinazionali straniere a comandare e muovere i fili dell’economia boliviana. La nazionalizzazione del gas e la nascita di un socialismo indio basato sulla fusione tra Stato e sistema cooperativo per l’estrazione degli idrocarburi e di altri tesori quali granito, travertino, sale, fosfati, argento e pietre preziose, ha tagliato fuori di fatto per oltre un decennio le vecchie élites e gli Stati Uniti, loro partner storico di riferimento, sostituiti dalla Repubblica Popolare Cinese che tuttora condivide con il governo il controllo del litio a Salar de Uyuni, l’oro bianco vitale per le batterie di smartphones e computer.

La tecnologia cinese e tedesca ai fini dell’estrazione è irrinunciabile, al di là dei connotati politici, dal momento che l’enorme disponibilità del materiale grezzo – 21 milioni di tonnellate – pone la Bolivia ai vertici della produzione planetaria, seguita da Cile e Argentina, ostacolata però da enormi difficoltà dovute alla separazione del minerale dal sale che lo contiene. Il processo di evaporazione necessario, esula dal know-how locale e necessita di intervento esterno.

Lo scenario politico ed economico odierno è il prodotto di un mix letale tra privatizzazione, esplosione della pandemia, disordine sociale e ribasso del costo delle materie prime. I dati ufficiali riportano disoccupazione schizzata al 12% (dal 3,9% che era con Morales), tasso di povertà in aumento del 7%, crescita economica in calo del 6%. Ma ciò che colpisce di più i ceti bassi è lo stop imposto ai programmi di supporto sociale. E, ciliegina sulla torta di letame, lo scandalo dei ventilatori per la respirazione assistita ai malati di Covid, acquistati da Cina e Spagna a prezzi super gonfiati: milioni di dollari in eccesso che sono confluiti nelle capaci tasche della nuova burocrazia governativa “ad interim“. Il solito capro espiatorio ha pagato poi per tutti.

Non solo Oas

La miccia della dinamite che ha fatto esplodere il conflitto boliviano fino a rasentare la guerra civile, è stata accesa lo scorso anno dalla Oas, Organizzazione degli Stati Americani. Arrivati da Washington in seguito alla richiesta del governo di allora dopo i primi disordini post elettorali, i suoi delegati denunciarono irregolarità mai comprovate. Il comportamento ambiguo dei funzionari è stato recentemente stigmatizzato proprio da membri del Congresso Usa, tali Jan Schakowsky e Jesús Gracía, i quali hanno chiesto la revisione dei finanziamenti governativi, che costituiscono oltre il 60% del fondi Oas.

In seguito a un’inchesta di The Guardian, lo scorso anno appurai che in realtà la superficialità più che la malafede era stata causa dell’equivoco: i funzionari incaricati del monitoraggio, non avevano tenuto conto del fatto che la pausa dei conteggi – quando lo spoglio delle schede aveva già superato l’80% – si era resa necessaria per consentire l’arrivo delle urne dalle zone rurali più lontane, che sono per tradizione lo zoccolo duro del Mas. Quando lo spoglio riprese, Morales superò Mesa con il 10% di scarto.

Tuttavia la scarsa professionalità Oas non costituì un fattore determinante: il motivo principale che causò la fine della leadership socialista, va ricercato nelle faide interne al Movimento, che avevano indebolito la sua struttura e portato il ceto medio del Mas – che si era arricchito a spese degli strati sociali più esposti quali minatori e contadini – a distaccarsi dai principi basilari dei suoi fondatori, servendo su un piatto d’argento alle vecchie élites la loro rivincita.

Se vogliamo parlare di golpe, questo maturò proprio all’interno di organizzazioni quali la Central Obrera Boliviana, il sindacato indipendente dei minatori, che invece di tutelare i suoi iscritti, cominciò ad accumulare profitti sfruttando le loro fatiche bestiali e fomentando serrate che culminarono con l’assassinio del ministro degli Interni Rodolfo Llanes, e l’attentato dinamitardo di Oruro, che uccise 4 persone. L’avidità borghese, zona grigia del socialismo boliviano, il tarlo che rode da sempre la sinistra internazionale.

Testi e foto © Flavio Bacchetta

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