È tempo di finali Nba. Dopo il lungo stop imposto dal coronavirus e dopo gli scioperi a sostegno del movimento Black Lives Matter, giovedì 1° ottobre la National Basketball League manda in scena nella “bolla” di Orlando il primo atto della sfida tra Los Angeles Lakers e Miami Heat. I campioni della Western e della Estern Conference si affronteranno al meglio delle sette gare per conquistare il Larry O’Brien Championship Trophy e guadagnarsi così il titolo di campioni Nba. Lakers e Heat si ritroveranno per la prima volta insieme su questo palcoscenico in un confronto senza precedenti nella storia della lega americana. Occhi puntati su LeBron James, protagonista dell’ultimo successo di Miami e oggi trascinatore a Los Angeles, ma non solo. Ecco dieci cose da sapere sulle Nba Finals 2020.

1. Lo stesso cammino
Lakers e Heat hanno raggiunto le Nba Finals facendo registrare un identico record in post season: 12 vittorie e 3 sconfitte, dominando rispettivamente Western ed Estern Conference. I Lakers hanno steccato il battesimo dei primi due turni di playoff, andando sotto sia con Portland che con Houston prima di inserire il pilota automatico e archiviare entrambe le pratiche con un secco 4-1. Lo stesso risultato lo hanno poi stampato in faccia ai Denver Nuggets, capaci però di infastidirli ben più di quanto reciti lo score finale. Miami invece è partita lanciata, rifilando uno 4-0 a Indiana e strapazzando i Bucks del Mvp Giannis Antetokounmpo. A completare la cavalcata è arrivato infine il 4-2 con cui si sono sbarazzati dei pur coriacei Boston Celtics, soffocati dalla difesa a zona degli Heat. Stesso passo e stesso usura, insomma. Eppure per i bookmaker c’è una netta favorita.

2. Los Angeles Lakers, i campioni designati
Il lusso di avere a libro paga LeBron James è che fare mercato diventa più facile, perché chiunque vuole giocare con il migliore al mondo. O quasi. Lo scorso anno, infatti, i Lakers hanno sì firmato lo strepitoso Anthony Davis, ma hanno pure dovuto incassare il gran rifiuto di Kawhi Leonard (approdato a Los Angeles, ma sponda Clippers). Svanito il sogno Big Three, tuttavia, la dirigenza gialloviola ha saputo lavorare nella giusta direzione, confermando chi nella passata stagione si era messo in luce (in primis Alex Caruso) e aggiungendo poi una buona dose d’esperienza. Los Angeles è quindi oggi una squadra matura, impreziosita da un Danny Green pronto a replicare il successo dello scorso anno in maglia Toronto e da due All Star finalmente ritrovati come Rajon Rondo e Dwight Howard. Di atletismo e profondità ce n’è in abbondanza, ma a impressionare è la solidità mentale di una squadra che se arriva in vantaggio a fine terzo quarto, risulta impossibile da rimontare: per 53 volte è accaduto in stagione e per 53 Los Angeles ha festeggiato.

3. Miami Heat, arrivano gli “underdog”
I bookmaker li condannano, ma di recitare la parte della vittima sacrificale gli Heat non ne vogliono sapere. I ragazzi di coach Spoelstra del resto sono abituati alla diffidenza, e anzi proprio su questo revanscismo hanno costruito le loro fortune. La stragrande maggioranza del roster, infatti, è composta da giocatori scelti molto tardi nei rispettivi Draft o addirittura nemmeno selezionati. È il caso di Duncan Robinson, che fino a un paio di anni fa rifletteva se darsi alla cucina o al giornalismo e oggi è invece uno dei migliori tiratori da 3. Cuore pulsante della squadra è Jimmy Butler, leader tecnico ed emotivo di un gruppo giovane e affamato, che può far leva sulle geometrie di Goran Dragic e sul carisma di Udonis Haslem. Ala grande di Miami dal lontano 2002, Haslem ha contribuito a tutti i successi della franchigia e (pur essendo ormai fuori dalle rotazioni) resta un punto di riferimento nello spogliatoio. Menzione speciale, infine, per Andre Iguodala, che dopo il ciclo aureo con Golden State approda alla sua sesta Finale consecutiva.

4. Lebron James, la stagione della rivincita
L’anno scorso c’era già chi lo dava per finito. Rallentato da un infortunio che era solo il primo sintomo di un chilometraggio ormai troppo elevato e da un trasloco che per la prima volta l’aveva messo a confronto con le corazzate della Western Conference. Dodici mesi più tardi, però, nessuno parla più. A un passo dai 36 anni, LeBron Raymone James ha messo a referto una stagione da 26 punti, 10 rimbalzi e 8.8 assist di media a partita, strappando il pass per la sua decima Finale (la nona negli ultimi dieci anni). Per comprendere la follia di questo dato, basti pensare che 27 delle 30 franchigie Nba sono arrivate a giocarsi l’anello meno volte di lui. The Chosen One resta quindi la miglior espressione di basket sul pianeta e il viale del tramonto per lui si presenta piuttosto trafficato. Del resto dopo la mancata qualificazione ai Playoff 2019 King James aveva avvertito: questa sarebbe stata la stagione della vendetta. E ancora una volta, siamo tutti testimoni.

5. La redenzione di Jimmy Butler
Jimmy Butler ha 13 anni quando sua madre lo caccia di casa. Per tre anni vive da senzatetto prima di venire accolto dalla famiglia di un ragazzetto conosciuto in un playground. Dopo la high school nessun college di prima fascia intende puntare su di lui e in Nba ci arriva solo con la 30esima scelta. A differenza di King James, la sua non è la parabola di un predestinato, ma la testimonianza della determinazione selvaggia di chi si è dovuto sudare ogni singolo traguardo: dal titolo di giocatore più migliorato nel 2015, alle convocazioni agli All-Star Game, passando per le nomination nei migliori quintetti di lega. Eppure sino a pochi mesi fa Butler era considerato un prooblma da tifosi e addetti ai lavori. Colpa di un carattere spigoloso e di quella fame che spesso non ha trovato nei compagni di squadra. Ha spaccato gli spogliatoi di Chicago, Minnesota e Philadelphia. Peccato, però, che senza di lui per questi team i playoff siano diventati un tabù. Conquistando le Finals, Jimmy ha già iniziato a togliersi qualche sassolino.

6. Dwight Howard, il ritorno di Superman
Nel 2012 Dwight Howard si presenta ai Lakers come Giulio Cesare sul Rubicone. Un anno più tardi lascia la California con i tifosi pronti a rievocare le Idi di Marzo. Fuggito a Houston, trova però solo una lunga serie di infortuni ad aspettarlo e da lì inizia l’incubo: la schiena che non regge, le contender che non lo cercano più e la sensazione di essere un dinosauro in una lega dove di centri “old school” ne restano ben pochi. Quando anche Memphis decide di tagliarlo, per Dwight sembra davvero finita. Un altro infortunio, però, gli offre un rilancio: il pivot losangelino DeMarcus Cousins si rompe il crociato, il mercato non offre di meglio e lui accetta un contratto con poche garanzie. Howard oggi è un giocatore diverso. Non più la superstar di inizio decennio, ma un atleta fisicamente ritrovato e pronto ad accettare un ruolo marginale, ma comunque decisivo. Contro Denver ha giocato col coltello tra i denti, arginando Jokic e presentandosi stremato ai microfoni nel post partita: “Sono esausto, ma mi ero promesso che se avessi mai avuto una chance di tornare avrei dato tutto me stesso”. Ed è quello che sta facendo.

7. Tyler Herro, non chiamatelo rookie
Non di rado capita di vedere un giocatore incantare in regular season e poi spegnersi una volta arrivato ai Playoff. Questo perché la transizione fra le due fasi del campionato è tutto fuorché graduale. Il ritmo delle 82 gare di stagione regolare non è paragonabile a quello di una serie da dentro o fuori, dove ogni errore può fare la differenza e in cui le difese alzano vertiginosamente il livello d’intensità. Tyler Herro, però, questo scotto non sembra averlo pagato, anzi. Intelligente nelle letture difensive, straordinario dal palleggio e letale sugli scarichi, durante questi Playoff Herro ha visto i suoi numeri lievitare, arrivando a infiocchettare una Finale di Conference da oltre 20 punti di media uscendo dalla panchina. Pescato con la 13esima chiamata dal solito Pat Riley (presidente-demiurgo degli Heat), il ragazzo da Kentucky ha messo in campo una personalità clamorosa e conquistato la fiducia dei compagni più esperti. Per questo e per mille altri motivi, pur essendo al suo primo anno in Nba, definirlo rookie sembra quasi un insulto.

8. Dion Waiters, comunque vincitore?
Talento cristallino con la canotta di Syracuse, non ha saputo replicare al piano più alto quanto di buono fatto vedere a livello di college. Colpa soprattutto di un’etica del lavoro rivedibile, ma pure di quella depressione e di quell’ansia che ha confessato di avere da tempo per compagne. Inizia la stagione in maglia Heat, scendendo in campo solo tre volte ma facendo comunque parlare di sé per un’indigestione di orsetti gommosi alla marijuana patita durante un volo in direzione Los Angeles. Ceduto e tagliato una manciata di mesi dopo il fattaccio, Dion ha siglato un accordo con i Lakers e potrebbe quindi ora ritrovarsi in una situazione alquanto singolare. Avendo disputato almeno una gara con entrambe le franchigie finaliste, infatti, il suo nome dovrebbe comunque figurare tra quello dei vincitori. Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo: visti i trascorsi non è scontato che Miami voglia ricordarsi di lui.

9. Erik Spoelstra, l’uomo che guardava le videocassette
Spoelstra mette piede in Nba nel 1995, ma non lo fa entrando dalla porta principale. Dopo aver giocato e allenato in seconda divisione tedesca, è infatti assunto nel ruolo di coordinatore dei video dai Miami Heat. Quel lavoro gliel’ha trovato suo padre, che per il figlio però non ho voluto sconti. Erik comincia così a spendere intere giornate chiuso in un ufficio, ad analizzare vhs e a prendere appunti su ciò che vede. Situazioni di gioco, giovani prospetti, partite degli avversari… ore e ore a guardare e a imparare, collezionando promozioni sino ad arrivare al passo più importante: la nomina a head coach nel 2008. Un paio d’anni più tardi si trova già a dover far convivere Dwayne Wade, LeBron James e Chris Bosh. Insieme, in campo, con un solo pallone. La prima stagione con i Big Three crolla in finale contro Dallas e tifosi chiedono la sua testa. La società però lo protegge, crede in lui e arrivano così due titoli e altre tre Finali. Oggi ci ritorna di nuovo, con una squadra profondamente diversa, con meno talento ma altrettanto cuore. Una squadra operaia, fatta da gente che viene dal nulla. Proprio come Erik, l’uomo che guardava le videocassette.

10. Da Kobe. E per Kobe
L’ultima volta che il Los Angeles Lakers hanno preso parte a una Finale Nba in campo c’era lui, Kobe Bryant. Era il 2010, l’hanno del quinto titolo del Black Mamba e del Larry O’Brien Trophy alzato in faccia agli arcirivali di Boston. Da lì per i gialloviola è iniziata una decade fatta di grandi illusioni e terribili cadute. La più tremenda di tutte consumata lo scorso 26 gennaio a Calabasas, nell’incidente che ha strappato alla vita Kobe e sua figlia Gianna. Da allora i Lakers giocano portando sul petto le iniziali KB e il numero 2 (quello della piccola Gigi) e l’eredità del numero 24 resta più che mai tangibile. In Finale di Conference, contro Denver, Anthony Davis ha urlato “Kobe” nel momento in cui ha infilato il canestro decisivo di gara 2. Un grido che ha riempito il palazzetto semideserto estinguendosi solo nell’abbraccio con i compagni. Perché Los Angeles quest’anno deve mantenere una promessa: da Kobe, per Kobe.

Twitter: @Ocram_Palomo

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