La mezz’ora forse più importante di tutta la campagna elettorale. È la prima mezz’ora del primo dibattito presidenziale, che si terrà stasera a Cleveland, Ohio, moderato da Chris Wallace di Fox News. È in quella mezz’ora che Joe Biden dovrà mostrare agli americani di essere in grado di guidare il Paese. È nella stessa mezz’ora che Donald Trump dovrà dimostrare, anche agli americani che non lo amano e non lo hanno mai amato, che lui è comunque la scelta meno rischiosa, quella che evita agli Stati Uniti pericolosi salti nel buio.

L’importanza dei dibattiti nella storia presidenziale – I dibattiti presidenziali in TV, nonostante critiche e frequenti appelli ad aggiornarli, restano un appuntamento importante di ogni campagna elettorale. Inaugurati nel 1960, con un mitico scontro tra John F. Kennedy e Richard Nixon, continuano ad attirare un numero altissimo di spettatori – soprattutto il primo, che è quello in cui l’attesa è più alta. Il primo dibattito televisivo tra Hillary Clinton e Donald Trump, nel 2016, fece 84 milioni di spettatori; 71,6 milioni si collegarono per il terzo dibattito. Se si pensa che la notte finale delle Convention dei due partiti, sempre nel 2016, raccolse meno di 35 milioni di spettatori, si capisce quanto l’appuntamento sia significativo.

Ogni dibattito resta nella storia per qualcosa di particolare. Un dettaglio, una frase, un gesto, una gaffe, cose che poco hanno a che fare con la politica ma che possono decidere un’elezione. Tutti ricordano il primo dibattito TV, il 26 settembre 1960 con Nixon vestito di grigio, pallido, affaticato, sudato, con lo sguardo mai rivolto alla camera ma sempre vagante per la sala: a fine serata, Kennedy aveva acquisito un vantaggio di cinque punti sul rivale. Nel suo dibattito con Jimmy Carter, nell’ottobre 1976, Gerald Ford disse che “non esiste dominio sovietico nell’Europa orientale”. Ford voleva ovviamente dire che gli Stati Uniti non avrebbero mai riconosciuto il dominio sovietico nell’est Europa. Ma la frase venne fuori stonata, tanto da perseguitare il candidato repubblicano per tutta la campagna e fino alla sconfitta finale.

Andò molto meglio a un altro candidato repubblicano, Ronald Reagan, che si presentò in TV nel 1980 per un dibattito, proprio contro Carter. I democratici avevano sino allora cercato di dipingere Reagan come un pericoloso conservatore e guerrafondaio. Quando Carter ripeté l’accusa, Reagan sorrise, scrollò la testa e disse: “Eccoti ancora qui”. Come a dire, eccoti a ripetere un’accusa ridicola. Sorriso e tono sembrarono tutt’altro che minacciosi. Reagan, che era entrato in sala per la diretta TV con tre punti di svantaggio, ne uscì con tre di vantaggio.

Il dibattito di stasera – I tempi sono ovviamente cambiati. Oggi i candidati, grazie a un’informazione che scorre ininterrotta per 24 ore e all’uso pervasivo dei social, sono personaggi stranoti e non hanno bisogno del dibattito tv per farsi conoscere. La radicalizzazione e la polarizzazione della vita politica sono un altro elemento che riduce l’importanza dei dibattiti TV. A differenza di un tempo, gli indecisi sono oggi molto meno. Secondo un sondaggio Nbc News/Wall Street Journal di queste ore, solo l’11 per cento dei potenziali elettori non ha ancora deciso per chi votare. Questo significa che la percentuale di chi deciderà il proprio voto sulla base dell’appuntamento TV è molto bassa, e l’apparizione dei due candidati servirà, più che altro, a infiammare le opposte fazioni e confermare i propri orientamenti e pregiudizi. Detto questo, il dibattito non va sottovalutato. Una gaffe, un atteggiamento sbagliato verso il rivale, possono ingenerare dubbi e creare problemi. Per questo il principale obiettivo, stasera, sarà sicuramente uno: non fare errori. Prima di colpire e affondare l’avversario, Joe Biden e Donald Trump devono sincerarsi di non fare passi falsi. Entrambi sono piuttosto in là con l’età, rispettivamente 77 e 74 anni, e reggere un’ora e mezza di domande e risposte, soggetti a una pressione tremenda, non sarà un’impresa facile. Entrambi sono conosciuti per non essere capaci di attenersi rigidamente allo script. Per tutti e due, quindi, la regola prima sarà mantenere un ferreo controllo sulla performance.

La preparazione – I due si sono preparati in modi diversi. Biden ha svolto gran parte del lavoro preparatorio a casa, a Wilmington, interagendo con i suoi collaboratori di persona o via Internet. È stato spesso il senatore del Delaware, Chris Coons, a fargli da sparring partner. I dibattiti durante le primarie (meglio per lui il faccia a faccia con Bernie Sanders piuttosto che quelli affollati di candidati che si parlavano uno sull’altro) dovrebbero averlo forgiato a sufficienza – come peraltro 47 anni di vita politica a Washington. Più irregolare, manco a dirlo, il modo in cui Trump arriva all’appuntamento. Il presidente non ha mai amato un rigoroso lavoro preparatorio, preferendo affidarsi all’istinto. In queste settimane, tra un comizio e un impegno presidenziale, tra un volo aereo e una conferenza stampa, Trump ha “provato” il dibattito con due dei suoi più stretti collaboratori, Jason Miller e Hope Hicks, e con due vecchie volpi repubblicane: Chris Christie e Rudy Giuliani. Le prove vere, ha però tenuto a sottolineare, sono state quelle con i giornalisti “che mi sono sempre ostili”. Per il resto, ha aggiunto, “mi preparo un po’ ogni giorno, facendo quello che faccio”. Va ricordata una cosa. Spesso i presidenti in carica arrivano al primo dibattito senza tempo e voglia per un’adeguata preparazione. Successe a Carter contro Reagan, a George W. Bush contro John Kerry, a Barack Obama contro uno spiritato Mitt Romney. Potrebbe accadere di nuovo, questa volta a Trump.

Cosa aspettarci – Il dibattito arriva in un momento non facile per Trump. Le rivelazioni del New York Times, che pure non mostrano nulla di davvero illegale, rivelano un presidente coperto di debiti e pronto a tutto – per esempio, assegnare alla figlia Ivanka sostanziose “parcelle di consulenza” – pur di non pagare le imposte. La trasformazione della linea di difesa di Trump – che prima ha bollato come “fake news” le rivelazioni e poi ha spiegato di aver “di diritto” usufruito delle scappatoie fiscali, sono il segno di una certa difficoltà a spiegare agli americani i misteri dei suoi “tax returns”.

Trump sa anche molto bene che Biden colpirà duro sugli oltre 200mila morti per Covid-19 e più in generale sulla gestione della pandemia negli Stati Uniti. La campagna del presidente potrebbe anche aver fatto, in questi mesi, un errore capitale. La strategia è stata quella di dipingere Biden come troppo anziano, non al massimo delle sue facoltà mentali. “Sleepy Joe” è stato il soprannome che Trump ha dato al rivale; e ancora domenica, in un tweet, il presidente chiedeva un test antidroga per Biden, sottintendendo che senza l’aiuto di qualcosa di chimico il candidato democratico non funziona. Fissando così in basso la sbarra per la performance di Biden, Trump però potrebbe averlo aiutato. Qualsiasi cosa Biden farà o dirà, apparirà comunque superiore alla attese.

Quanto a Biden, lo sfidante sa molto bene una cosa: che Trump si scatenerà contro la sua famiglia, contro i figli Hunter (implicato in transazioni non chiarissime nell’affare ucraino), Frank e Jim. Il vecchio vice-presidente non deve commettere l’errore di farsi coinvolgere da Trump in un corpo a corpo sui dettagli: il candidato repubblicano spesso inventa cifre e dati e potrebbe essere faticoso, e noioso per il pubblico, confutare le sue affermazioni. Più capace Biden sarà di apparire il candidato del ritorno alla normalità, più frequenti saranno i momenti in cui potrà mostrare il suo lato intimo e affettuoso, più probabilità avrà di uscire vittorioso. Esitazioni nelle risposte, una certa incapacità a restare focalizzato sul messaggio – pecche mostrate durante le primarie democratiche – potrebbero però essergli fatali.

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