Finora, sono 33 gli articoli scientifici pubblicati e poi ritirati, tra le riviste coinvolte ci sono anche le più autorevoli al mondo. Le motivazioni delle ritrattazioni sono varie: si va da errori marchiani e sviste statistiche, fino a vere e proprie frodi, passando per plagi, scopiazzature e addirittura ricerche basate su cartelle cliniche inesistenti. Molti di questi articoli hanno prodotto una concatenazione di reazioni a livello planetario, tali da portare al ritiro di farmaci sperimentali, prima considerati affidabili e consigliati, poi altamente rischiosi, poi nuovamente affidabili. Influenzando, in corsa, le strategie farmacologiche contro Covid di intere nazioni. Sono circa 2mila a settimana gli articoli scientifici pubblicati a tema Covid, secondo il monitoraggio del sito istituito dallo statunitense Nih (National Institutes of Health). Il primo articolo scientifico ritirato, su Sars-Cov-2, risale allo scorso febbraio, e suggeriva delle “strane similitudini” tra il coronavirus e l’Hiv.

Il caso più clamoroso riguarda l’articolo pubblicato da The Lancet. Le conclusioni in fondo all’articolo erano preoccupanti e allarmistiche, eppure false: l’idrossiclorochina aumenta la mortalità dei pazienti ospedalizzati. Dopo nemmeno 24 ore, l’Oms, e poco dopo anche Aifa in Italia e le maggiori autorità sanitarie del mondo, hanno bloccato il farmaco oggetto della pubblicazione. Anche un articolo di uno studio francese sulla sua efficacia è stato ritirato. A riprova che i tempi della ricerca e della scienza non possono essere mai troppo veloci. Ritirato dal New England Journal of Medicine lo studio che ‘assolveva’ i farmaci Ace inibitori (i farmaci più diffusi per il controllo di ipertensione, scompenso cardiaco, malattie renali croniche e altre patologie cardiovascolari) dall’accusa di favorire l’infezione. Nessuna rivista, neanche le più autorevoli, sfugge al fenomeno, che è comunque considerato positivo perché evidenzia la capacità del sistema di identificare frodi o comunque articoli errati. Ad esempio Lancet e il New England Journal of Medicine, le due più autorevoli, hanno ad esempio ritirato due ricerche basate sui dati della compagnia privata Surgisphere perché gli stessi autori hanno denunciato problemi nell’avere un accesso completo al database. A questi articoli “ritirati”, monitorati dai ricercatori di Retraction Watch, vanno aggiunte anche le pubblicazioni (non considerate dai ricercatori californiani), che non sono state ritirate in senso stretto, ma che hanno subito una “correzione” pesante.

IL CAMPANELLINO INDIANO CHE UCCIDE IL SARS-COV-2
Dall’inizio della pandemia, ad oggi, sono stati pubblicati migliaia di articoli di ricerca. Tra quelli ritirati, si trovano alcuni totalmente incomprensibili e pressoché innocui, come quello apparso sul Journal of Molecular Pharmaceuticals and Regulatory Affairs. Uno studio in cui si sosteneva, già dal titolo, che: “Coronavirus ucciso dalle vibrazioni sonore prodotte dal Ghanti”, (il Ghanti è una sorta di campanellino indiano del XIX secolo). Poco settimane dopo la rivista ha ritirato lo studio, che non aveva alcuna base scientifica.

IVERMECTINA, UCCIDE IL VIRUS IN DUE ORE?
Ma, a fronte di articoli ininfluenti, ce ne sono altri che hanno cambiato il corso della pandemia di intere nazioni. Il 19 aprile, è stato pubblicato su SSRN (database online di ricerche accademiche) un articolo: “Utilità dell’Ivermectina nella malattia COVID-19”, che poi è stato ritirato. Nel mentre, l’8 maggio, il governo peruviano aveva acquisito quasi 500.000 dosi di ivermectina, e l’aveva inclusa – senza prove scientifiche – come trattamento COVID-19 nelle linee guida cliniche ufficiali. C’è stata la corsa all’acquisto del farmaco, in situazione emergenziale è stata somministrata l’ivermectina veterinaria (il farmaco è ampiamente utilizzato anche in campo animale per la cura della dirofilariosi in cani, gatti, cavalli). Dopo il Perù, anche la Bolivia, e alcuni comuni del Brasile iniziarono a pianificare l’utilizzo sanitario del farmaco. Tutto nasceva da una pubblicazione fake, legata ad una società di Big-data americana, la Surgisphere. La stessa che aveva fornito dati falsi per la pubblicazione su The Lancet.

IL 5G E IL CORONAVIRUS, QUALE LEGAME?
Altro studio, apparso e poi ritirato, è quello sul 5G, “Tecnologia 5G e induzione del coronavirus nelle cellule della pelle”. Nella pubblicazione, sul Journal of Biological Regulators and Homeostatic Agents, si sosteneva che la tecnologia dei cellulari 5G potesse portare all’infezione con il nuovo coronavirus apparso. L’abstract è ora contrassegnato come “Withdrawn” su PubMed e l’articolo è scomparso dal sito web della rivista. Secondo gli autori: “In questa ricerca, dimostriamo che le onde millimetriche 5G potrebbero essere assorbite da cellule dermatologiche che agiscono come antenne, trasferite ad altre cellule e svolgere il ruolo principale nella produzione di Coronavirus nelle cellule biologiche”.

IL FUMO PROTEGGE DAL CORONAVIRUS?
L’articolo, titolava “La prevalenza del fumo è bassa nei pazienti sintomatici ammessi per COVID-19″, pubblicato su MedRxiv preprint, il 10 maggio 2020 e ritirato il 13 giugno 2020, aveva purtroppo intaccato il dibattito pubblico. Purtroppo, la prevalenza dei dati, dimostra il contrario, ovvero un’incidenza negativa del fumo, nei malati di COVID-19.

LA VITAMINA D E LA MORTALITA’ ASSOCIATA A COVID-19
La ricerca indonesiana che ha sollevato la possibile correlazione tra vitamina D e mortalità nei pazienti COVID-19, “Patterns of COVID-19 Mortality and Vitamin D”, è stata pubblicata su SSRN il 30 aprile 2020, anche qui è stata ritirata. La tesi dell’articolo scientifico erano chiare: la maggior parte dei casi di COVID-19 con stato di vitamina D insufficiente e carente è morta. Questa correlazione non trova alcun riscontro nella letteratura clinica di COVID-19. In Italia, ad esempio, l’80% della popolazione ha carenza di vitamina D (dati SIOMMMS, Società Italiana Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro), questo non significa che l’80% degli italiani positivi a Sars-CoV-2 abbiano prognosi negativa. Inoltre, la ricerca è stata firmata da autori che risultano sconosciuti, senza alcun curriculum scientifico, né legati ad alcuna università.

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