A volte un’assenza può fare molto più rumore di una presenza. Soprattutto nello sport. Perché nessun risultato sfavillante potrà mai far discutere come la decisione di ritirarsi da una competizione o addirittura di non presentarsi affatto. Per questo il boicottaggio è diventato una delle armi politiche e sociali più affilate del “secolo breve” (e non solo). Viene agitato davanti a telecamere e tastiere, sottintende un giudizio morale, diventa un indice puntato contro gli altri che diventano automaticamente conniventi. L’assenza di competizione come competizione stessa. A patto che si abbia poi il coraggio o la forza di arrivare fino in fondo, di non trasformare la minaccia in una promessa da marinaio. Perché sono moltissimi i casi di boicottaggi boicottati, prima annunciati e poi rimangiati.

Proprio come nel 1936, quando i Cinque Cerchi arrivano a Berlino. La Germania ha ottenuto l’assegnazione delle Olimpiadi cinque anni prima, quando Hilter ancora non era salito al potere. Ma nel 1933 Stati Uniti e democrazie occidentali suggeriscono al Cio che forse sarebbe meglio cambiare sede per non trasformare i Giochi in uno spot per il nazismo. Il comitato ascolta, ringrazia e poi risponde che ormai si deve andare avanti così, che cambiare sede sarebbe stato contrario allo spirito antidiscriminatorio delle Olimpiadi. Negli Stati Uniti ci si divide. Avery Brundage, presidente del Comitato Olimpico a stelle e strisce, dice chiaramente che non bisogna immischiarsi nei problemi fra i nazisti e gli ebrei. Eppure il fronte favorevole al boicottaggio cresce velocemente. Nel marzo del 1934 al Madison Square Garden di New York va in scena un raduno antinazista. Il numero di partecipanti è impressionante e anche il Times sostiene l’iniziativa. Il fronte del no ai Giochi è ormai una realtà che non può più essere ignorata. Così Brundage cala l’asso nella manica: andrà personalmente in Germania per vedere con i suoi occhi se davvero gli ebrei sono vessati. Finalmente gli Stati Uniti sapranno la verità. Ma durante il suo viaggio a Berlino Brundage sceglie come traduttore un suo amico con simpatie naziste e ascolta solo persone selezionate (e preparate) dal regime. Le polemiche continuano, ma ormai non servono più niente. Avery Brundage ha vinto: gli Stati Uniti vanno a Berlino e sfilano con il resto del mondo sotto quel trionfo di svastiche voluto da Goebbels.

Quando le Olimpiadi tornano in Germania, nel 1972, è ancora tempo di sangue e lacrime. Per cancellare il ricordo del nazismo la sicurezza olimpica è affidata per lo più a poliziotti e volontari. Nella notte del 4 settembre alcuni atleti israeliani vanno a teatro per assistere allo spettacolo musicale “Il Violinista sul Tetto” di Joseph Stein. Sembra una sera come tante, almeno fino alle 4 del mattino. In quel momento otto componenti di Settembre Nero, un gruppo affiliato all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, si avvicinano al villaggio olimpico e si imbattono in alcuni atleti canadesi che li aiutano a scavalcare le recinzioni. La parte più difficile era superata. I terroristi irrompono nella palazzina dove dormono gli atleti israeliani. Due di loro vengono immediatamente uccisi, altri 9 sequestrati. Le Olimpiadi ripartono mentre il mondo è sotto shock. I prigionieri moriranno qualche ora più tardi, quando i guerriglieri scopriranno il bluff della polizia tedesca. I Giochi si fermano. Per un solo giorno. Molti Paesi pensano di richiamare le proprie delegazioni, prendono tempo. Ma lo spettacolo deve andare avanti. Nonostante la morte. Nonostante le lacrime. E così lo stesso Avery Brundage, che nel frattempo è diventato presidente del Cio, decide di far ricominciare l’olimpiade.

Quattro anni più tardi il tennis italiano arriva in finale di Coppa Davis. Un’ottima notizia se non per un piccolo dettaglio: bisogna andare a giocare in Cile, feudo del dittatore Augusto Pinochet. La polemica infuria immediatamente. Al Pci l’idea non piace. La sede della Federtennis viene occupata da giovani che scandiscono slogan come “Non si giocano volée con il boia Pinochet”. Il governo prende tempo, non vorrebbe inviare gli azzurri ma capisce anche che il boicottaggio può essere strumentalizzato dal dittatore. Alla fine Andreotti lascia che a decidere sia il Coni. Si va a Santiago del Cile, dunque. Per alzare il trofeo l’Italia deve vincere nel doppio. Subito dopo l’allenamento Panatta va da Bertolucci e gli dice che vuole giocare con la maglia rossa, quella che le donne vestivano per rivendicare la scomparsa dei desaparecidos. Bertolucci prima rifiuta, poi cede. L’Italia vince la coppa e regala un dispiacere doppio al regime cileno.

Nelle Olimpiadi del 1976 ci fu effettivamente un boicottaggio, dovuto però a un mancato boicottaggio. La squadra di rugby della Nuova Zelanda aveva viaggiato nel Sudafrica dell’apartheid (che era sottoposta a un boicottaggio sportivo) per giocare con delle squadre composte da soli bianchi. 27 Paesi africani più l’Iraq e la Guayana decisero di manifestare il proprio dissenso non partecipando ai Giochi di Montréal. Tutto mentre il Cio si giustificava dicendo che il rugby non era più sport olimpico e che quindi spettava ai singoli stati decidere come comportarsi.

Due anni più tardi i Mondiali di calcio arrivano in un’Argentina che deve fare i conti con la povertà. Ma soprattutto con la dittatura militare. Non andare a giocare il Mondiale del 78 sarebbe un segnale forte. O almeno così pensano soprattutto in Francia e Olanda. Sulla spinta degli esuli argentini nasce il Comité pour l’Organisation para le Boycott de l’Argentine de la Coupe du Monde. La sua propaganda è martellante e trova l’appoggio del Partito Socialista e delle frange di estrema sinistra. Ma non quello della popolazione. Così dopo poco la fiamma si spegne. Nei Paesi Bassi la protesta nasce intorno a un duo di comici anarchici. Durante la loro trasmissione mostrano la gravità della situazione in Argentina e chiedono di non inviare la nazionale al Mondiale. Socialisti e studenti sposano la causa. Non basta. L’arancia meccanica volerà in Argentina e perderà la finale proprio contro i padroni di casa. Così quel Mondiale da possibile arma contro le brutalità della dittatura, le torture e i desaparecidos, si trasformò nel migliore palcoscenico per il regime. Neeskens aveva detto: “Non si dovrebbe mischiare lo sport con la politica, perché altrimenti non si potrebbe giocare nessuna partita. Ovunque nel mondo accadono cose schifose”. I giocatori Nba però hanno deciso che quello che succede oggi negli Stati Uniti è troppo. E, per una volta, lo sport è andato fino in fondo.

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