Con il social-mediatico plauso della piccola comunità degli alpinisti, la giovane torinese Federica Mingolla aveva appena concluso la sua seconda impresa sul Monte Bianco, ripetendo una linea di salita molto difficile sulla parete Nord delle Grand Jourasses, conosciuta come “Manitua”. Nel primo report, “la Ming”, come viene chiamata dal cognome che usa nei suoi account, descrive la discesa come un incubo.

Il gestore del rifugio Boccalatte-Piolti, l’appassionato Franco Perlotto, che da qualche anno cerca di mantenere in vita questo celebre punto di appoggio in alta Val Ferret, già il 24 giugno segnalava con un post la situazione: “Due ragazzi francesi sono i primi di questa stagione ad arrivare dalla parete Nord. Hanno salito la via del Linceul. La neve è ancora abbondante e le condizioni sono buone. La via normale è tracciata ma in pomeriggio la neve diventa molto molle, faticosa. I due francesi hanno preferito bivaccare in vetta ed attendere le migliori condizioni del mattino”.

Ora, non siamo arrivati nemmeno alla seconda settimana d’agosto, ed eccoci al fondato timore di nuovi crolli, e ai conseguenti divieti, nel versante sud, sul ghiacciaio che s’affaccia verso Courmayeur: la “Conca in vivo smeraldo…” cantata da Giosuè Carducci, a cui, appunto, “da la gran Giurassa […] il sole più amabile arride”, ma parafrasando oggi si dovrebbe parlare di una gran Carcassa da cui spuntano con un atroce ghigno dei raggi ormai troppo riscaldanti.

Appena qualche mese fa, un rappresentante politico regionale della Valle d’Aosta si era lamentato per la presunta onda lunga negativa generata da un’analoga situazione d’allarme in Val Ferret l’anno scorso. Del resto, erano in molti a pensare che per l’alta montagna, grazie anche a tardive abbondanti nevicate, fosse una stagione buona, questa prima dell’epoca post-Covid.

Non sono mancate piccole e grandi imprese, ma – si noti – soprattutto da parte dei nuovi campioni della velocità, con il cronometro come dio: a fine luglio il polacco Filip Babizc in 17 ore ha affrontato la cosiddetta Integralissima di Peuterey sul Bianco, con un’incredibile cavalcata in solitaria di sette creste (riassunto statistico: 8mila metri di sviluppo, oltre 4mila di dislivello positivo, 900 di calate in corda doppia).

Ancora ai primi d’agosto i campioni “valtournains” François Cazzanelli e Francesco Ratti hanno ripetuto il cosiddetto trittico del Freney in appena 46 ore; per non dire dei due alpinisti svizzeri Adrian Zurbrügg e Nicolas Hojac che l’8 luglio hanno completato, in 13 ore e 39 minuti, l’ascesa a tutte le 18 cime sopra i 4mila metri nel Monte Rosa. Un’impresa unica è stata la 4×4000 di Davide Cheraz e Pietro Picco di Courmayeur: in quattro giorni, dopo il 20 luglio, hanno concatenato le cime del Cervino, del Rosa, del Gran Paradiso e del Bianco, usando la bicicletta per muoversi da una valle all’altra: 400 km sui pedali, e 6mila e 500 metri di scalata.

Per i comuni mortali, invece hanno tenuto banco le solite litanie d’incoscienti che non si legano sui ghiacciai e non portano le attrezzature adeguate, di cadute nei crepacci, di chiamate al soccorso, d’interi pezzi di pareti mito come il Monviso e il Cervino che si sono sbriciolati. E ora il solito bla-bla sul possibile crollo dalle Grand Jourasses. Chissà perché, poi, facciamo tutti ormai così fatica a prendere atto della realtà (o meglio un perché in più ci sarebbe, e andrebbe indagato meglio, tra strapotere del virtuale e l’auto-referenzialità di massa).

Ancora nei primi anni Duemila, quando si cominciavano già a vedere benissimo i disastri del global-warning sulle nostre montagne, se qualcuno tentava di far notare agli alpinisti, magari quelli del Cai in giro per i vari corsi, che i rischi oggettivi da affrontare sconsigliavano di ripetere certi itinerari, magari proprio i più affollati, si sentiva rispondere: “Ma no, se si è sempre fatto”. Guai, poi se i divieti, anche i più logici e inevitabili, vanno a intaccare il grado di libertà assoluta della comunità alpinistica, com’è successo in Bianco: s’apre la sarabanda delle proteste, con in testa magari proprio i più noti.

Vallo a far capire, anche se ti dichiari reo confesso da ultimo della fila, che sono gli alpinisti i primi a violare l’eco-sistema, e non solo in quanto turisti o per gli spostamenti in auto e in aereo, ma perché si appropriano in vario modo del territorio di tutti, un patrimonio unico e straordinario come le montagne, oltretutto costellato di strutture pubbliche o comunque finanziate dalle istituzioni, come le strade e i sentieri, gli impianti di risalita e i rifugi.

Per scalare le montagne si sporca e s’inquina parecchio: il che vale più che mai adesso che tanti vanno alla ricerca di sfide e di ambienti sempre più estremi. E’ un mondo da ripensare da zero, anche quello dell’alpinismo, ma non basterà forse nemmeno il crollo della Giurassa-carcassa.

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