La Corte costituzionale ha dato un anno di tempo al Parlamento per riformare la legge che prevede il carcere per i giornalisti in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa e ha indicato come le pene detentive potranno al massimo riguardare i casi in cui l’offesa alla reputazione “implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”.

La questione di legittimità è stata sollevata dai Tribunali di Salerno e Bari e, con l’ordinanza depositata oggi ma nota già dal 9 giugno, la Consulta ha rinviato l’udienza sulla decisione al 22 giugno 2021 in modo da consentire al legislatore di approvare una nuova disciplina, ricordando che la libertà della stampa è “cruciale” ma sottolineando tuttavia che tecnologie e social aumentano i rischi per la reputazione delle vittime. L’indicazione della Corte costituzionale, contenuta nell’ordinanza, è quella di una legittimità del carcere come pena solo nel caso in cui la diffamazione inciti all’odio e alla violenza.

Il bilanciamento espresso dall’attuale legge, a parere della Corte, è divenuto ormai “inadeguato” e richiede di essere rimeditato dal legislatore “anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, che “al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata” l’applicazione di pene detentive nei confronti di giornalisti “che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui”. Ciò anche in funzione dell’esigenza di “non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri”.

Il nuovo bilanciamento, prosegue la Consulta, dovrà “coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica” con le altrettanto “pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti”. Vittime, ragionano i giudici, “che sono oggi esposte, dal canto loro, a rischi ancora maggiori che nel passato” per via degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”.

Ad avviso della Consulta, quindi, un così “delicato bilanciamento” spetta “primariamente” al legislatore, ritenuto il soggetto più idoneo a “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica)”, ma anche a “efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico”.

In questo quadro, conclude la Corte costituzionale nel dare un anno di tempo per cambiare la legge, il Parlamento “potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra le quali si inscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”.

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