Poco più di 5 milioni di pagamenti mensili arrivati a destinazione, sui conti correnti di 2,6 milioni di lavoratori. Che si aggiungono ai 4,3 milioni a cui la cassa integrazione è stata anticipata dal datore di lavoro. Ma 123.542 non hanno ancora ricevuto nulla, nemmeno per il primo mese di lockdown. Dopo le polemiche sul ritardo nell’arrivo di una parte degli assegni attesi dai lavoratori fermi a causa dell’emergenza Covid e le promesse del presidente Pasquale Tridico, lunedì l’Inps ha diffuso una tabella per fare chiarezza sui numeri. Operazione riuscita però solo a metà, visto che non tutti i potenziali beneficiari sono conteggiati in quelle colonne.

“A spanne quelli che non hanno ancora percepito la cassa sono almeno mezzo milione”, ha spiegato infatti la segretaria confederale Cgil Tania Scacchetti a Radio1 Giorno per giorno. “Potrebbero esserci molte aziende che hanno ricevuto dall’Inps l’autorizzazione ma non sono riuscite ancora a produrre i modelli SR41″. Non solo: la tabella Inps prende come base di confronto i beneficiari il cui datore di lavoro ha inviato correttamente tutti i dati per il pagamento nel modello SR41, appunto. Impossibile quindi sapere quanti sono ancora in attesa perché in quel documento c’erano degli errori. Per esempio negli Iban.

“La tabella non è di facile lettura”, commenta Vincenzo Silvestri, consigliere nazionale dell’ordine dei Consulenti del lavoro. “Sembra di capire che residuano 562mila prestazioni da erogare mentre in 123mila non hanno preso nulla. In più però ci sono i lavoratori che fanno capo a enti minori come il Fondo di Solidarietà Bilaterale per l’artigianato (Fsba), che è rimasto a secco dopo aver pagato marzo e ora attende le risorse stanziate con il decreto Rilancio: sono almeno 100mila, stima al ribasso. E ci sono quelli “incastrati” nelle pratiche di cig in deroga che alcune regioni, come la Lombardia, devono ancora deliberare“.

Insomma, la coda di chi attende gli aiuti è sicuramente più numerosa. “Ma non si può dire che la colpa sia dell’Inps”, continua Silvestri. “Per quanto riguarda le pratiche che hanno avuto un iter fisiologico l’istituto si è mosso in tempi anche rapidi rispetto a quelli ordinari. I problemi veri nascono da una legislazione barocca e inadeguata all’emergenza, in cui gli ammortizzatori sono dispersi in mille rivoli. Per cui, per esempio, ci sono state aziende che hanno sbagliato destinatario della domanda mandandola a Inps invece che alle Regioni o viceversa. Basta un errore di codice e il meccanismo si inceppa“. Non a caso il decreto varato lunedì per coprire il “buco” che si sarebbe aperto nei prossimi giorni dà 30 giorni per ripresentare la domanda ai datori di lavoro che l’abbiano presentata “per trattamenti diversi da quelli a cui avrebbero avuto diritto o comunque con errori od omissioni”.

L’attuale sistema degli ammortizzatori, di cui ora il governo ha annunciato la riforma, è in realtà stato modificato in tempi abbastanza recenti: “Nel 2015, con uno dei decreti attuativi del Jobs act. Ma si è partiti dal presupposto sbagliato che cig faccia rima con industria. Invece la grande industria quasi non esiste più e l’universo delle imprese è enormemente articolato. Ne è risultata una complessità istituzionale perversa, uno spezzettamento di competenze – per dimensione di impresa, per numero di occupati, per attività – che in una fase di emergenza non poteva che avere questi esiti“. Gugliemo Loy, presidente del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Inps, a 24Mattino ha spiegato quello che è successo dicendo che “si è usata una procedura ordinaria in tempo di guerra, armi convenzionali in una guerra nucleare. Si è deciso di usare lo strumento vecchio e ciò ha prodotto ritardi”.

Non c’erano alternative? “In Germania le aziende presentano il dettaglio del costo del lavoro sostenuto e in pochi giorni arriva il bonifico”, dice Silvestri. “Ma quello è un altro mondo”. Da noi la nuova riforma non può che “mettere tutto in capo all’Inps rendendolo il punto di riferimento unico”. Le altre linee guida, anticipate dalla sottosegretaria al Lavoro Francesca Puglisi saranno la distinzione tra le aziende in difficoltà temporanea e quelle in crisi irreversibile e robuste politiche di riqualificazione per ricollocare rapidamente i cassintegrati. Evitando che quando l’azienda getta la spugna si ritrovino fuori dal mercato del lavoro.

Articolo Precedente

Stati Generali, il sindacalista Soumahoro si incatena a Villa Pamphili: “Sciopero della fame per braccianti e invisibili. Governo ci ascolti”

next
Articolo Successivo

Lavoratori stranieri, in due settimane 32mila domande al Viminale: quasi tutte per colf e badanti. Solo il 13% viene dal settore agricolo

next