Amazon, almeno per me, non è un caso di business, è un caso di coscienza. Da tempo, chi ama le piccole botteghe, i prodotti di nicchia, i fornitori di articoli di difficile reperibilità vive una situazione di lacerazione interiore. Vorrebbe sostenere le piccole realtà locali, ma si rende conto che Amazon è stato veramente un passo avanti per i consumatori.

Tutti vorremmo recarci a comperare libri, oggetti da regalo, utensili, tutto quanto ci passa per la mente, sotto casa, dove il rapporto umano e diretto dà ai prodotti un differente sapore; ma poi alla fine siamo clienti di Amazon Prime (che ora ti regala anche il cinema). Insomma, non solo nel periodo del lockdown, indubitabilmente (lo dicono le statistiche) anche per i clienti italiani, Amazon è stata una gran bella cosa: prezzi convenienti, velocità, qualità e assoluta puntualità nelle consegne, rimborsi pronti ed efficienti.

Tuttavia, proprio in questi giorni pare che la situazione possa cambiare. Sembra che Amazon voglia intervenire direttamente sul versante della produzione, non fare più solo il passamano, creare dei marchi propri, produrre in prima persona, mettendoci la propria faccia. A rischio di rompere il giocattolo. In poco tempo ha infilato nella propria offerta, in piena concorrenza con i suoi fornitori, ben 45 marchi di cui è proprietaria e 243 mila prodotti. Il pericolo non è solo quello di incrinare irrimediabilmente i rapporti con alcuni tra i produttori storici, ma anche quello di disporre i clienti a un umore diverso, a una condizione psicologica più guardinga.

Anche i più riluttanti negli ultimi mesi hanno sperimentato il “paese delle meraviglie di Jeff”. Il commercio sembrava fatto apposta per far crescere Amazon, nessuno faceva magazzino, i più risparmiavano nelle consegne, i negozi non avevano mai la vostra taglia o quello che vi serviva, e guarda caso in libreria il vostro libro non c’era mai. Poi è arrivato anche l’obbligo di comperare online.

Così perfino i consumatori problematici – quelli che si preoccupano che all’interno di Amazon per i dipendenti non siano tutte rose e fiori, e i ritmi di lavoro siano al limite dello sfruttamento – alla fine avevano ceduto. Jeff Bezos è perfino riuscito a migliorare l’efficienza, clamorosamente bassa, nella consegna dei pacchi dei corrieri nazionali e di Poste Italiane in particolare, si è fatto un proprio trasporto e gli altri hanno dovuto adeguarsi, cioè accelerare il passo, migliorare la qualità del servizio, che languiva da sempre. Il mondo del commercio è cambiato definitivamente. Lui ha fatto miliardi, i consumatori non si sono lamentati.

Vendere, soprattutto se sei bravo, è relativamente facile. Produrre è invece sempre più difficile. Se poi nella filiera la tua funzione è semplicemente quella della vetrina – senza dover formulare alcun giudizio e lasciando (quasi) tutto nelle mani del consumatore – è addirittura facilissimo. I giudizi del consumatore sui prodotti pesano sui produttori, non sugli intermediari.

Passare dalla parte del semplice commerciante a quella del produttore è un cambio di pelle radicale, e può essere rischioso. Produrre è un dirty job complicatissimo, ancor più spinoso se poi fatto in conflitto di interessi, se i tuoi fornitori, proprio coloro che ti hanno dato fino ad oggi la materia prima dei tuoi successi, possono diventare di colpo tuoi concorrenti e cominciano a vederti come qualcuno da sconfiggere.

Noi non sappiamo quello che c’è nel cervello di Jeff Bezos e il ragazzo ha già dato ampia prova di saperci sorprendere. Una cosa però sappiamo per certa, Amazon, come tutte le grandi, serie imprese sa bene che non bisogna mai dormire sugli allori, anche se sei in cima alla piramide, anche se trionfi. Quindi prepariamoci a cambi di marcia, a svolte impreviste. Tuttavia, non credo che la recente decisione di entrare con alcuni marchi come produttore possa essere il primo passo verso una totale inversione e conversione da intermediario a produttore.

Troppi rischi. Probabilmente è solo una tattica temporanea per esercitare pressioni su alcuni produttori, che evidentemente stanno offrendo qualche inquietudine ai boss di Amazon in certi settori merceologici. Infatti, se le aziende che collocano su Amazon non fanno bene il loro mestiere, anche Amazon ci rimette. Jeff finora è diventato miliardario migliorando complessivamente il mercato per tutti e anche se l’ingordigia a volte acceca, difficilmente cercherà di scavarsi la fossa con le sue mani.

La debolezza di Amazon è al suo interno, nella gestione e nel coinvolgimento del personale, che vive conflittualmente i rapporti di lavoro, che è stato utilizzato e in parte spremuto per ottenere vantaggi ai consumatori e all’azienda. A questo settore Amazon dovrà indirizzare le proprie attenzioni, perché alla lunga non ha senso tenere in conflitto gli interessi dei propri dipendenti con quelli dei consumatori, non basta la soddisfazione dei clienti, ci vuole anche quella dei lavoratori, che è ancora più importante nel medio-lungo periodo per garantire i profitti e il successo di un’azienda.

Non credo che Bezos voglia o possa rompere il giocattolo meraviglioso che ha costruito fin qui. Ma certamente non è pensando di trasformarsi in produttore che proseguirà nella marcia trionfale. Prima che sia troppo tardi si dia da fare per creare strutture e mezzi per cui tutti i suoi dipendenti siano fieri e felici di poter contribuire a uno dei più grandi successi della storia imprenditoriale del XX secolo.

Articolo Precedente

Perché le banche non imparano dai loro errori? Per certe ossessioni dei loro manager

next
Articolo Successivo

Lombardia, in piena pandemia la Regione stanziava soldi per la Pedemontana. Se il rilancio è questo…

next