È un atto d’amore verso la Sicilia l’ultimo libro di Piero Melati, La notte della civetta, ed. Zolfo. Pieno di sicilianità, di cupezza e di profondità, come lo spirito di quella terra nichilista “inconscio dell’Italia”. Così indefinita da rappresentare uno spazio di riserva del pensiero irrazionale.

Uscito mentre il virus si impossessava delle nostre vite, il libro non è tuttavia passato inosservato, forse per merito della sua intensità e per la sua distanza dai luoghi comuni: niente frasi fatte o deferenze. Se dobbiamo ricordare il giudice Costa, dobbiamo anche parlare dei sostituti che lo abbandonarono: lui firma i mandati di cattura contro gli Inzerillo, gli altri no.

Lui viene ammazzato, gli altri vanno avanti partecipando alle cerimonie in memoria degli “eroi”. Ai funerali dei caduti, disse all’autore un famoso Pm, si vede chi scende e chi sale, basta guardare la disposizione delle prime file.

E ancora: non ci sono santi intoccabili, la Sicilia mette contro anche i suoi figli migliori, come Sciascia e Falcone. Altrimenti come poté il grande scrittore credere al mafioso Macaluso e non al giudice? “Sindona non è stato rapito, è tutta una messa in scena”, gli fa il Falcone nel loro unico e freddo incontro, ma Sciascia: “allora non ho capito Macaluso”. Non disse “il mafioso mi ha mentito”.

Sono tante le riflessioni di questo libro con cui lo scrittore sembra voglia “pagare” la lunga assenza dalla sua terra, lasciata dopo il Maxiprocesso, narrandone la storia amara. “Perché sei scappato da Palermo? Preferisco i miei miraggi personali a un’intera realtà divenuta surreale”. Il testo è ricco di cultura e simboli, ma soprattutto pieno di mafia, di armi e di eroina.

Ovvio, no? Talmente tante erano le armi a Palermo da costringere il cronista indomito a diventarne esperto, conoscitore della balistica, osservatore della potenza di fuoco dell’Akm 47, il Kalashnikov, l’arma leggera più letale di sempre, studioso dei proiettili traccianti, quelli che fanno luce per consentire di vederne la traiettoria. Come quelli usati per trucidare il poliziotto Ninni Cassarà.

L’agguato avrebbe dovuto essere fatto di notte con i proiettili illuminati, ma di giorno fece più scena, fu una clamorosa dimostrazione di forza da parte di Cosa Nostra che inviò un esponente di ogni famiglia a far parte del commando, un omicidio collettivo. Era la vigilia del Maxi e non si dice mai, mai, insiste Melati, che ci fu una tregua tra Stato e mafia.

Dopo l’attentato il nuovo capo della Mobile disse che si doveva lavorare per la normalizzazione, ma di chi? Di quelli come Cassarà? Il punto di fuoco della storia siciliana di Melati è l’estate del 1985, quasi una ossessione, quella della trattativa della morte dei poliziotti. Ma quando si è fottuta la Sicilia? Forse da sempre oppure da “quando furono lasciati morire Cassarà e Antiochia e poi lo Stato ripiegò”.

Il cronista vede e rivede dentro la sua testa, sicuramente lo fa da anni, ogni frammento di quella brutta estate: un mese prima c’era stato l’assalto a Beppe Montana. Cassarà e Montana erano i vertici investigativi che avevano messo in cima ai loro impegni di poliziotti l’arresto dei latitanti che giravano ridenti in città. Mentre si apre il Maxi, la Sicilia diventa terra sconsacrata, Cosa Nostra si riprese il territorio. La tregua delle armi andò così, un patto faustiano.

In Sicilia tutto sembra nascere da un ventre profondo e ambiguo che genera patti mortali: i grandi capi, Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano non è che proprio si catturano. E non è neppure che si consegnano. Piuttosto abbassano un po’ la guardia, lasciano qualche traccia, attendono, per stanchezza, per sopravvenuta anzianità, per timore che i malumori degli affiliati si tramutino in aperte rappresaglie, per la pressione dei figli, per un segnale politico di qualche consigliori.

Qualcuno tra i criminali pose domande, come Pino Greco, Mario Prestifilippo: dopo che Riina ci ha fatto eliminare La Torre e dalla Chiesa è stata approvata la legge per sequestrarci i beni, ci spiegate quale interesse avevamo noi ad ucciderli? Pare di sentire le parole di Spatuzza quando parlò delle stragi mafiose del 92-93: non erano morti nostri. Ma di chi allora?

Ha ragione Piero, non finisce mai… Anche l’eroina è tornata. Una dose costa cinque euro, basta a fare una carneficina. Quando Rocco Chinnici parlò della droga al Rotary Club di Palermo gli invitati si imbarazzarono. Attenti, non è finita per niente.

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