Le prime proposte risalgono al 2010. Nel dicembre di quell’anno, dopo la crisi finanziaria e all’apice di quella dei debiti sovrani, l’allora presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker e l’allora ministro dell’Economia italiano Giulio Tremonti in un intervento sul Financial Times chiesero che la Ue lanciasse un messaggio forte ai mercati creando una Agenzia europea del debito per emettere bond sovrani europei. A nove anni di distanza, mentre l’Unione affronta un‘emergenza ancora più grave e con impatto potenzialmente ben peggiore, il dibattito sugli eurobond è di nuovo al centro dei negoziati tra i Paesi membri.

Che cosa sono, a grandi linee, è presto detto: titoli pubblici – l’equivalente dei nostri Btp o dei Bund tedeschi – emessi però non da un singolo Paese ma da un’agenzia o un ente dell’Unione europea. Titoli europei, dunque. Garantiti, insieme, da tutti gli Stati membri e ripagati da ognuno in base al suo peso nell’economia europea. Con quale vantaggio? L’unione fa la forza, per cui i tassi di interesse da pagare agli investitori per convincerli a comprare quei bond finanziando così l’intera Unione sarebbero più bassi rispetto a quelli dei titoli nazionali.

Visto che per affrontare la pandemia e il suo impatto economico ogni Stato dovrà sostenere spese enormi, indebitandosi, i leader di nove Paesi – oltre all’Italia anche Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Belgio e Slovenia – hanno chiesto il 25 marzo di “lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’Ue per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri”. E la presidente dell’esecutivo europeo Ursula von der Leyen si è detta d’accordo. Molte le ipotesi operative: dal coinvolgimento del Mes, che già oggi emette obbligazioni e sarebbe “pronto all’uso”, all’emissione da parte della stessa Commissione, fino alla creazione di un nuovo fondo ad hoc per la ripresa post-emergenza.

Il punto è che raccogliere “sulle stesse basi” non conviene a tutti. In quest’epoca di tassi negativi, gli interessi di un ipotetico eurobond sarebbero sicuramente più bassi rispetto a quelli pagati dai Paesi del Sud Europa, a partire dall’Italia che oggi paga agli acquirenti dei suoi Btp un tasso intorno all’1,6% nonostante l’effetto “calmiere” dei forti acquisiti fatti dalla Banca centrale europea. Ma è probabile che non ne trarrebbero vantaggio gli Stati a basso debito pubblico come la Germania, che oggi è in grado di vendere Bund a dieci anni con interesse negativo (-0,3%) – vale a dire che chi la finanzia è disposto a pagare per farlo. Uno dei nodi è proprio questo. Una parte nutrita dell’opinione pubblica del Nord Europa non vede di buon occhio l’idea di rinunciare a questo “vantaggio competitivo” dato alla minore rischiosità percepita dai mercati, vantaggio misurato dallo spread che è appunto il differenziale di rendimento tra titoli dei diversi Paesi.

Non solo: l’altro timore è che i Paesi del Sud Europa possano approfittare della possibilità di emettere debito con garanzie comuni e a tassi più bassi per aumentare la spesa improduttiva. Insomma: buttare via i soldi. Il vecchio pregiudizio sugli “spendaccioni” dell’Europa meridionale, sostenuto dall’evidenza che se il rapporto debito/pil della Germania a fine 2019 è sceso al 60%, al contrario quello italiano ha superato il 130%, quello portoghese è salito oltre il 120% e quelli di Spagna e Francia si sono avviati verso il 100%. Vale a dire che stanno spendendo più di quanto producono e per farlo devono indebitarsi sempre di più.

E sono proprio le resistenze del Nord Europa ad aver sempre impedito, negli ultimi dieci anni, qualsiasi passo avanti sulla strada dei titoli comuni. Nonostante la proposta Tremonti-Juncker non sia certo rimasta isolata. Nell’agosto 2011 è arrivata per esempio quella dell’ex premier e presidente della Commissione europea Romano Prodi e l’economista Alberto Quadrio Curzio, che in un intervento sul Sole 24 Ore hanno delineato la creazione di un Fondo finanziario europeo con capitale conferito dagli Stati dell’Unione e in grado di emettere “Euro Union Bond“.

Nel novembre di quell’anno la Commissione Ue guidata da José Manuel Barroso presentò un “libro verde” dedicato proprio agli eurobond, con varie ipotesi sul rapporto tra quei titoli comuni garantiti da tutti gli Stati membri e quelli nazionali. Nell’estate 2013 si insediò addirittura un gruppo di dodici esperti nominati appositamente per esaminare “vantaggi, rischi, requisiti legali e conseguenze finanziarie di iniziative per l’emissione comune di debito”. Due anni dopo la Grecia sarebbe precipitata in una nuova crisi, arrivando sull’orlo dell’uscita dall’Unione, mettendo il freno a qualsiasi ipotesi di coordinamento fiscale e finanziamento comune sui mercati.

Riceviamo da Giulio Tremonti e pubblichiamo:

Signor Direttore, ho appena letto e con molto interesse l’articolo di Chiara Brusini pubblicato su “Ilfattoquotidiano.it” sotto il titolo “Eurogruppo, che cosa sono gli eurobond di cui si parla da dieci anni e perché i Paesi del Nord Europa sono contrari”. Nell’articolo è scritto tra l’altro quanto segue: “… La prima proposta risale al dicembre 2010, dopo la crisi, e porta la firma dell’allora
presidente dell’Eurogruppo Juncker e di Giulio Tremonti…”. E’ vero, ma per la verità una prima proposta di “eurobond” risale al 2003, contenuta nel programma ufficiale presentato dall’Italia per il suo semestre di Presidenza europea (secondo semestre 2003). In particolare la proposta italiana derivava (citandolo) dal “Piano Delors” (1994), un piano per i tempi visionario che proponeva di estrarre il “dividendo dell’Unione” quotando eurobond per finanziare infrastrutture europee. Nel 2003 la proposta italiana estendeva il catalogo degli investimenti finanziabili con eurobond tra l’altro includendovi il settore della difesa. Ricordo le reazioni: la reazione tedesca fu a priori contro il debito, fosse questo nazionale od europeo; la reazione inglese (non c’era ancora stata la Brexit!) fu molto più articolata: “eurobond means eurobudget; defence means nation building. No thanks!”. Il colpo finale al progetto di eurobond fu assestato dalla Commissione Prodi. Grazie davvero per la pubblicazione di questa specifica “storica”,
Giulio Tremonti

Risponde Chiara Brusini:

Ringraziamo il professor Tremonti per la sua specifica storica. Aggiungiamo che nel secondo semestre del 2003, quando l’Italia assunse la presidenza di turno dell’Unione, la discussione a livello europeo era monopolizzata dal progetto di Costituzione per l’Europa. Che fu archiviato dopo la vittoria del no ai referendum in Francia e nei Paesi Bassi.
Il programma della presidenza italiana presentato nel luglio di quell’anno parlava genericamente di “uno strumento finanziario europeo che si basi sulla capacità di indebitamento e sul “know-how” della Banca Europea per gli Investimenti”, con l’obiettivo di finanziare investimenti pubblici nelle infrastrutture. Un eurobond nell’accezione di Delors, dunque. Non c’erano, invece, riferimenti all’opportunità di finanziare in maniera congiunta i titoli emessi dagli Stati membri, come avrebbe previsto la successiva proposta Tremonti-Juncker.
Come ricordato dal professor Tremonti i maggiori Paesi membri – allora la Ue ne aveva solo 15 – erano comunque contrari, cosa che impedì passi avanti.
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