È come una grande lavatrice con il cestello a caricamento verticale. Alta un metro e mezzo, larga un metro. La decontaminazione delle mascherine Ffp2 e Ffp3 venute a contatto con il Covid-19 potrebbe passare da qui. Ci sta lavorando l’azienda pavese De Lama, impegnata nel campo della sterilizzazione dal 1949. Un prototipo è stato mandato al Policlinico San Martino di Genova, perché completi i test necessari. Per il momento, i risultati ottenuti sono buoni. “Con l’esplosione dell’emergenza abbiamo ricevuto molte telefonate, soprattutto da parte di ospedali: erano disperati perché le protezioni necessarie al personale sanitarie scarseggiavano”, spiega Marco Bianchi, responsabile Comunicazione e Marketing in De Lama.

L’azienda si occupa di progettare impianti impiegati nella sterilizzazione di prodotti destinati alla farmaceutica e alla ricerca. Sterilizza anche ferri chirurgici e materiali tessili necessari in sala operatoria. Ma delle mascherine non si era mai occupata. Il motivo è intuibile: “Sono sempre state usa e getta”. Tra una telefonata e l’altra si crea un consorzio che collabora per mandare avanti il progetto nel più breve tempo possibile: oltre a De Lama, partecipano l’ospedale Policlinico San Martino e l’Ordine dei medici di Genova, l’università di Pisa, il Politecnico di Torino e l’azienda Bercella, esperta nella creazione di materiale aerospaziale. “Era importante agire insieme per svolgere molti test, ripetuti più volte. Il Policlinico San Martino e l’università di Pisa si sono occupati dell’aspetto microbiologico e procedurale, per individuare la temperatura e la pressione necessarie, mentre il Politecnico di Torino e Bercella si sono concentrati sulla filtrazione e sull’elasticità: dobbiamo essere sicuri che la mascherina, anche se soggetta a vari cicli, non perda le sue capacità filtranti”, continua Bianchi.

La macchina può contenere all’incirca un centinaio di Ffp2 o Ffp3 usate. Ma, precisano dall’azienda, si può lavorare anche con impianti più grandi. Vengono inserite in una camera rinforzata al cui interno è stato precedentemente creato un vuoto. Quindi, si inserisce vapore saturo a una temperatura elevata, che penetra nelle fibre dei tessuti ed elimina gli agenti patogeni. Nei processi di decontaminazione canonici si sale fino a 121 gradi, ma in questo caso sarebbero troppi, perché danneggerebbero le mascherine. “Stiamo lavorando per trovare un equilibrio, con una temperatura che possa eliminare il Covid-19 senza distruggere il materiale”, spiega Bianchi. “Inoltre, è importante capire quanti cicli può sostenere una singola mascherina, cioè quante volte può essere decontaminata senza che perda le sue qualità”. Il processo in tutto dura circa un’ora. Oltre a tamponare la carenza di presidi di protezione, il processo aiuterebbe a risolvere anche il problema dei rifornimenti: i prezzi delle Ffp2 e delle Ffp3 sono saliti alle stelle e gli ospedali ne consumano in enormi quantità.

Il prossimo passo è attendere che i test in corso a Genova siano conclusi: “Per ora i riscontri sono molto buoni. Il nostro obiettivo finale è presentare un protocollo ufficiale (Protocollo di decontaminazione delle semimaschere filtranti di tipo FFP2 e FFP3, ndr) a nome di tutti i membri del consorzio”. Se dovesse funzionare, precisa Bianchi, potrà essere applicato dove ce ne sarà bisogno e, una volta ricevute le opportune autorizzazioni, potrà essere adottato anche da altre aziende: “Non vogliamo essere i depositari di una formula segreta. Vogliamo dare il nostro contributo”.

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