Quasi un mese fa l’Università di Bologna pubblicò uno studio sull’ipotesi che smog e polveri sottili potessero aver accelerato la diffusione del coronavirus Sars Cov 2. Il particolato atmosferico viene considerato un efficace carrier, ovvero vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Nei giorni scorsi anche i ricercatori di Harvard hanno elaborato una ricerca che mette l’inquinamento sul banco degli imputati. “Un piccolo aumento dell’esposizione a lungo termine al particolato Pm2.5 porta a un grande aumento del tasso di mortalità da Covid-19″ dicono gli scienziati della prestigiosa università statunitense che indicano una possibile correlazione fra inquinamento atmosferico e aumento delle morti. Lo studio non è ancora pubblicato e disponibile al momento in versione pre-print. “Abbiamo osservato – spiegano gli autori – che un aumento di un solo microgrammo/metro cubo nei livelli di Pm2.5 è associato a un aumento del 15% del tasso di mortalità da Covid-19, con un intervallo di confidenza del 95% (5-25%)”.

“Gli scienziati del governo degli Stati Uniti – premettono i ricercatori del Dipartimento di biostatistica dell’Harvard T.H. Chan School of Public Heath, Boston, che firmano lo studio – stimano che Covid-19 potrebbe uccidere tra 100.000 e 240.000 americani. La maggior parte delle condizioni preesistenti che aumentano il rischio di morte per il virus sono legate alle stesse malattie influenzate dall’esposizione a lungo termine al particolato fine”. Da qui la decisione del team guidato da Xiao Wu e Rachel C. Nethery, nel quale figura anche la statistica italiana Francesca Dominici, di indagare sulla possibilità che l’esposizione prolungata allo smog potesse avere un impatto sul rischio di morte negli Usa.

Il Pm2.5, analizzando gli studiosi, contiene microsolidi e goccioline di liquidi “così piccoli da poter essere inalati e causare gravi problemi di salute. L’esposizione a lungo termine influisce negativamente sulle vie respiratorie e sul sistema cardiovascolare e può anche esacerbare la gravità dei sintomi dell’infezione Covid-19, e aumentare il rischio di morte nei pazienti Covid”. I dati sono stati raccolti in circa 3mila contee degli Stati Uniti (con il 98% della popolazione coperto) fino al 4 aprile 2020. E sono stati analizzati i dati sia relativi ai decessi per Covid che quelli relativi agli indicatori utili per fotografare la situazione di ciascuna contea sul particolato Pm,2.5 e l’esposizione dei cittadini.

Lo studio Global Burden of Disease, ricordano gli esperti, identifica l’inquinamento atmosferico come un fattore di rischio per la mortalità totale e per malattia cardiovascolare. Si ritiene che lo smog “sia responsabile di 5,5 milioni di morti premature in tutto il mondo all’anno”. I risultati della ricerca su Covid-19 “sottolineano l’importanza di continuare a rafforzare le attuali normative sull’inquinamento atmosferico per proteggere la salute umana sia durante che dopo la crisi Covid-19″, concludono gli esperti evidenziando che al contrario a fine marzo negli Usa è stato annunciato un allentamento delle norme ambientali in risposta alla pandemia di coronavirus.

“Il recente studio di Harvard che correla inquinamento e diffusione del Convid-19 è uno studio solido che sollecita una riflessione importante, però – ha dichiarato il presidente Iss ]alla conferenza stampa quotidiana – dobbiamo essere consapevoli che va fatta un’analisi di dettaglio. Dobbiamo approfondire questo argomento ed i ricercatori dell’Iss lavoreranno su questo tipo di scenario”.

Anche dall’Università di Catania arriva uno studio che ipotizza un nesso tra inquinamento e malattia. “Il rischio epidemico è più elevato in alcune delle regioni settentrionali dell’Italia rispetto alla parte centrale e meridionale. Da una analisi basata sui dati ufficiali messi a disposizione dall’Istat, Istituto superiore della Sanità e altre agenzie europee – sostiene Andrea Rapisarda, associato di Fisica teorica dell’Università di Catania – si è trovata una interessante e forte correlazione fra l’impatto della pandemia da Covid-19 e diversi fattori che caratterizzano in maniera diversa le regioni italiane quali inquinamento atmosferico da PM10, temperatura invernale, mobilità, densità e anzianità della popolazione, densità di strutture ospedaliere e densità abitativa“. La valutazione a priori del rischio epidemico delle regioni italiane in relazione a questi fattori è stata eseguita tramite una nuova metodologia elaborata da un gruppo interdisciplinare di docenti e ricercatori allo scopo di individuare i motivi per cui la diffusione della pandemia è stata più veloce e letale in alcune regioni dell’Italia piuttosto che in altre.

“È stato rilevato che il rischio epidemico è più elevato in alcune delle regioni settentrionali dell’Italia rispetto alla parte centrale e meridionale – spiegano i ricercatori -. Il nostro indice di rischio epidemico mostra forti correlazioni con i dati ufficiali disponibili dell’epidemia Covid-19 in Italia e spiega in particolare perché regioni come Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto stiano soffrendo molto di più rispetto al centro-sud. D’altra parte queste sono anche le stesse regioni che solitamente subiscono il maggiore impatto (in termini di casi gravi e decessi) anche per le influenze stagionali, come rivelano i dati dell’Iss”.

“Riteniamo quindi che non sia un caso che la pandemia di Covid-19 si sia diffusa più rapidamente proprio in quelle regioni con un più alto rischio epidemico come Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto – aggiungono i ricercatori -. I primi casi sono stati individuati sia a Roma a fine gennaio, con la coppia di turisti cinesi che girava da un po’ per la capitale, sia in Lombardia e Veneto a fine febbraio. Poi, poco prima del lockdown del paese, il 9 marzo e subito dopo, diverse ondate di centinaia di migliaia di persone sono rientrate nelle loro regioni di origine al centro sud diffondendo molto probabilmente il virus in tutta Italia”.

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