Appartengo ad una generazione che ha creduto nell’Europa. Nel 1992, quando a Maastricht è nata l’Unione europea, avevo 18 anni. Ho scoperto l’università dell’Europa “moderna” partecipando al progetto Erasmus (a Maastricht) e assaporando per la prima volta le patatine con la maionese. Per non farmi mancare nulla ho anche fatto un master al Collegio d’Europa di Bruges, istituzione che forma molti dei tecnocrati di Bruxelles.

E’ vero, rispetto ad altri coetanei, avevo alcuni anticorpi contro l’europeismo acritico. Mio padre, allora segretario di Rifondazione comunista, aveva votato contro la ratifica del trattato di Maastricht. Altri anticorpi si sono formati assieme ad una passione per la storia che poi è diventata un lavoro. Una memoria delle lotte sociale e operaie del ‘900, combinata con una curiosità per la storia, è un cocktail che immunizza contro i facili entusiasmi di chi crede ad una possibile “rifondazione” dell’Unione europea che metta in soffitta un trentennio di neoliberismo e politiche di austerità.

Bisogna capire cosa abbiamo di fronte: l’Unione europea.

L’Unione europea è parente della Comunità europea, creata nel 1957 per dar vita ad un mercato comune, ad una politica agricola comune e per favorire la libera circolazione dei lavoratori fra Paesi membri.

La Comunità, fino alla fine degli anni 60, era sostanzialmente un accordo fra Paesi coloniali (nel 1957 gli imperi esistevano ancora) senza strumenti di carattere redistributivo o sociale. Solo all’inizio degli anni 70 comincia a trasformarsi in qualcosa di diverso. Tende la mano ai Paesi “in via di sviluppo”, accettando condizioni preferenziali per le loro esportazioni, introduce politiche di carattere redistributivo (la “politica regionale”) e sociale (donne, lavoratori, migranti), e avvia un germe di democrazia diretta con le prime elezioni del Parlamento europeo nel 1979.

Senza negare il ruolo di singoli statisti, da Willy Brandt ad Aldo Moro, ancora più importante mi sembra il contesto in cui avvenne questo tentativo di trasformazione “post-imperialista”, solidale e democratica della Comunità europea. Erano anni segnati dall’opposizione di massa contro la guerra imperialista in Vietnam, dalla forza di un movimento dei lavoratori che in Italia, per esempio, aveva costretto Confindustria ad accettare la “scala mobile”, da uno strabordante desiderio collettivo di partecipazione.

Il contesto nel quale invece nasce l’Unione europea alla fine degli anni 80 è segnato da un’atmosfera culturale, politica e sociale completamente differente. Il movimento dei lavoratori veniva da un decennio difficile, a partire dalla drammatica sconfitta dei minatori britannici contro la Thatcher fino a quella del referendum sulla scala mobile in Italia. L’ideologia neoliberale, secondo la quale il compito dello Stato in economia è prevalentemente quello di regolare la competizione fra privati, cominciava a farsi strada anche nelle social-democrazie che Thomas Picketty ha definito “bramine” (il partito dei laureati). I Paesi in via di sviluppo, ricoperti da una montagna di debiti, erano considerati responsabili dei loro mali perché guidati da tiranni crudeli e corrotti. Nel 1989/90 crollava l’Unione Sovietica, un sistema che, vista l’attrazione che aveva esercitato su larghi settori del mondo intellettuale e del lavoro, aveva costretto le classi dirigenti europee a correre ai ripari, tra l’altro potenziando lo Stato sociale.

I padri fondatori dell’Unione europea, per esempio il Presidente della Commissione europea, Jacques Delors, videro nell’Europa una difesa contro la marea montante della globalizzazione. Di questo mondo iper-competitivo l’Unione europea divenne, in realtà, una delle punte di diamante. Il 10% più ricco della popolazione europea passava dall’accaparrarsi poco più del 25% della ricchezza totale nel 1980 al 35% nel 2018, la metà delle 20 più grandi istituzioni finanziarie al mondo sono europee, nel 2015 i Paesi Ue producevano la metà delle automobili esportate nel mondo.

L’Unione ha imposto la libera circolazione dei capitali, senza meccanismi di regolazione della finanza, e favorito la competizione fiscale al ribasso con la relativa creazione di paradisi fiscali quali il Lussemburgo e l’Olanda. La moneta unica ha accentuato la divergenza tra aree più e meno competitive del Continente senza dar vita a meccanismi strutturali di redistribuzione (il bilancio Ue è pari a un misero 1,11% del Pil europeo, e solo una parte di esso svolge una funzione redistributiva). La normativa sulla concorrenza ha favorito liberalizzazioni e privatizzazioni, senza migliorare i servizi dalle reti ferroviarie, a quelle idriche, in qualche caso (vedi Autostrade) provocando autentiche sciagure. L’Unione, pur vantandosi di essere il maggiore erogatore al mondo di aiuti allo sviluppo, ha un attivo commerciale con i Paesi dell’Unione africana e continua a propagandare un libero commercio ineguale come soluzione ai problemi africani.

La recessione del Covid, la peggiore del secondo Dopoguerra, può essere un’occasione per approfondire la cooperazione fra europei – già esistente sul fronte dell’ambiente, dell’agricoltura, della ricerca e dei diritti individuali, – lasciandosi alle spalle decenni di neoliberismo e di austerità. Se questo avverrà, però, non dipenderà dai negoziati tra gli attuali leader europei. Dipenderà semmai dalla formazione di movimenti politici, culturali e sociali che si battano contro i vari accordi al ribasso (dal Mes al Sure) che i governi stanno apparecchiando.

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