I pandemic bond sono un enigma che assomiglia abbastanza a un inganno. Tornati alla ribalta della cronaca in tempi di Coronavirus, sono obbligazioni emesse nel 2017 dalla Banca Mondiale, per un ammontare di 320 milioni di dollari. In teoria servono per aiutare i paesi più poveri a fronteggiare i costi di eventuali epidemie. In pratica accedere a questi soldi è molto complicato. Ora però è scattata la prima delle tante condizioni necessarie perché gli investitori – che finora hanno incassato ricche cedole – perdano il capitale.

Chi compra i bond accetta il rischio di perdere parte o tutto il suo investimento qualora si verifichino determinate condizioni legate ad emergenze sanitarie. In questo caso i soldi non vengono più restituiti ma usati per contrastare la malattia. In cambio di questo rischio i possessori del bond ricevono interessi molto elevati, nel caso delle tranches più rischiose fino a oltre l’11% l’anno. In questi tempi di rendimenti sotto zero, una specie di miraggio. Le cedole vengono pagate da paesi donatori, nello specifico Germania e Giappone. I pandemic bond sono finiti nei portafogli di grandi asset manager come Amundi, Baille Gifford, Stone Ridge. Finora un vero affare, ma l’esplosione dell’epidemia Covid19 rischia ora di mandare in fumo buona parte dell’investimento.

Il problema è che le condizioni per dirottare il capitale dei bond sono estremamente complesse e piuttosto confuse. Non è un caso che in occasione dell’epidemia di Ebola che si verificò tra il 2018 e il 2019 nella Repubblica Democratica del Congo i possessori dei bond non persero un solo centesimo. Motivo? Troppo poche le vittime fuori dal paese dove l’epidemia si era manifestata inizialmente. Questa è solo una delle condizioni che servono per poter dirottare i fondi degli investitori. Vediamo le altre. Devono passare 12 settimane dall’inizio dell’epidemia, nel caso del Covid 19 stabilito il 31 dicembre 2019: la data chiave è stata quindi il 23 marzo. Da ora in poi verranno valutati il numero di decessi e contagi nel paese originario e negli altri Stati oltre al numero di paesi coinvolti e il tasso di aumento dei contagi nelle due settimane successive (cioè fino al 6 aprile).

La pandemia comunque ha raggiunto dimensioni tali che il taglio del rimborso sembra dietro l’angolo. Il numero di vittime e di paesi coinvolti è sufficiente per far scattare l’accesso ai fondi. Il tasso di crescita dei contagi sarà invece noto solo il 9 aprile. Contrariamente ad alcune ricostruzioni, anche della stampa specializzata, non sarebbe invece strettamente necessario che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiari uno stato di pandemia globale (cosa comunque avvenuta mercoledì 11 marzo). Se tutte le condizioni sono rispettate i paesi “IDA”, in pratica i più poveri del pianeta, possono fare richiesta per accedere ai fondi. Una delle tante criticità è che non di rado questi paesi faticano a raccogliere statistiche affidabili sui decessi e i tassi di contagio richiesti per far scattare i rimborsi. Dati approssimativi aprirebbero autostrade per lunghi contenziosi legali sui rimborsi.

I pandemic bond sono divisi in due sotto-categorie. La prima da 225 milioni, meno rischiosa, che limita le perdite al 17% del capitale investito. La seconda, da 95 milioni, con la possibilità di perdere tutto l’investimento. Quindi la perdita complessiva potrà arrivate al massimo a 132 milioni di dollari. Entrambi scadranno il prossimo 15 luglio. Al momento sono scambiati sui mercati a forte sconto rispetto al loro valore nominale, circa il 50% in meno. Segno che i mercati si attendono che una qualche perdita questa volta possa davvero arrivare.

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