Il Decreto Cura Italia ha stanziato 100 milioni a sostegno delle imprese agricole. Bene così, ma è la stessa ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova ad affermare che: “Adesso dobbiamo cominciare ad immaginare interventi più strutturali per sostenere il sistema produttivo e il lavoro”.

Come Associazione NoCap, da sempre aperti al dialogo e proattivi per mettere sul tavolo proposte concrete e fattibili, ci sentiamo di fare un’analisi sulle misure adottate dal decreto.

E’ giustamente prevista un’indennità di 600 euro anche per i lavoratori in agricoltura, ma tra i requisiti richiesti leggiamo che essi “devono aver effettuato almeno 50 giornate effettive di attività di lavoro agricolo nel 2019”. Purtroppo conosciamo ormai tutti la realtà delle campagne in Italia, dove spesso i lavoratori sono occupati in modo irregolare (lavoro nero) o parzialmente regolare (lavoro grigio).

Anzi è proprio il “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato (2020-2022)” redatto assieme ai ministeri del Lavoro, degli Interni e delle Politiche Agricole che pone l’accento sull’annoso problema del lavoratore agricolo formalmente assunto, ma per il quale il datore di lavoro denuncia all’istituto previdenziale un numero di giornate lavorate inferiore a quelle realmente svolte.

La “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva – anno 2019” ci mostra che il settore agricolo riscontra una percentuale del 50% di lavoratori in nero. Si specifica che: “nel settore primario il sommerso è completamente imputabile all’utilizzo di occupazione non regolare”.

Sulla base delle indagini governative e delle finalità del Piano Nazionale di Contrasto al Caporalato riteniamo quindi molto miope prevedere dei requisiti stringenti e lacunosi come quelli esposti nel decreto, specialmente se ci si rivolge alla realtà degeneri del 2019.

Questa crisi poteva essere l’occasione per valorizzare e affermare la Rete del Lavoro Agricolo di Qualità, incentivando regolarizzazioni e garantendo ammortizzatori sociali a una platea più comprensiva e con riferimenti attuali, date le grandi storture del sistema.

Con la stessa decisione chiediamo di fare di più per le tante persone che hanno difficoltà o impossibilità a rispettare le misure di sicurezza igienico-sanitarie perché recluse in ghetti, o nei centri di accoglienza, o perché semplicemente senza una casa dove poter stare.

Nei Cas è impossibile mantenere le distanze di sicurezza e utilizzare norme igieniche atte a prevenire i contagi, così come il personale di servizio è in estrema difficoltà, nonché decimato dalla situazione corrente. Si rende necessario un piano alloggi straordinario che permetta di superare tutti insieme questa situazione nella maniera più civile.

Un ultimo pensiero ai lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro. Per loro il decreto all’Art. 16 dispone l’uso delle mascherine chirurgiche. Ma al comma 2 si legge con sconcerto che “Fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera di Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, gli individui presenti sull’intero territorio nazionale sono autorizzati all’utilizzo di mascherine filtranti prive del marchio Ce e prodotte in deroga alle vigenti norme sull’immissione in commercio”.

Questo non ci sembra un modo serio di rispettare e tutelare la sicurezza dei lavoratori, in quanto le mascherine efficaci contro la trasmissione del virus sono le FFP2 e FFP3 conformi alla norma EN 149 con valida marcatura CE.

Queste approssimazioni tradotte in decreto rischiano di essere uno specchietto per le allodole, ma non dimentichiamo mai che in gioco ci sono la salute e i diritti fondamentali dell’essere umano.

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