“Sembra un’influenza un po’ più contagiosa, non dovete preoccuparvi”. “Anch’io mi sono fatto la stessa idea. Tienici aggiornati, a presto”.

Era il 25 febbraio. La notizia delle prime persone contagiate nel nostro Paese era arrivata quattro giorni prima. Quel martedì ero al telefono con mio padre. Insieme a mia madre, stava dall’altra parte del mondo. Li rassicurai. Feci lo stesso, nei giorni a venire, con le persone che mi stavano intorno, assolvendo al tacito compito che spetta a quelli che si sono presi, nel rispettivo microcosmo di relazioni, il mio stesso, particolare tipo di ruolo. Quello dell’inossidabile ottimista.

Quel martedì i casi complessivi di coronavirus erano 322, dieci i morti. I dieci comuni del Lodigiano e quello in provincia di Padova erano in quarantena e sui giornali, dopo i primi allarmi, si gettava acqua sul fuoco. “Milano non si ferma”, sarebbe stato lo slogan di Beppe Sala, due giorni dopo, mentre nella tipica euforia che segue un momento di angoscia rimbalzavano gli inviti – anche tra gli esperti – per gli aperitivi, le visite ai musei, le cene al ristorante e le serate al cinema.

Quel martedì, sbagliai. E continuai a sottovalutare i rischi nei giorni successivi. Specialmente quelli legati alla diffusione, rapida, del virus, con la conseguente minaccia al sistema sanitario.

Le cose, poi, sono cambiate. Nel frattempo i miei genitori sono tornati a casa, in una delle zone più colpite dai contagi. Nella valle in cui vivono, le persone che hanno contratto il coronavirus hanno superato quota 220 (dati aggiornati al 12 marzo).. Ho sentito mio padre 71enne al telefono. Per la prima volta, ho sentito la sua voce tremare: “Ti ricordi il mio collega, V.? È in fin di vita. Positivo al coronavirus”.

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