Tra operatori umanitari e volontari si respira paura. La settimana scorsa ci sono stati duri scontri tra la polizia e gli isolani. Sabato mattina i 600 agenti inviati da Atene hanno lasciato l’isola. Da allora la parola d’ordine tra gli abitanti di Lesbo, una delle isole dell’Egeo messe più sotto pressione dalla nuova ondata migratoria dalla Turchia, è diventata “ora tocca alle ong”. Subito si è passati ai fatti. Tanti e violenti. Solo giovedì, dopo giorni di chiusura, le organizzazioni hanno ripreso a lavorare nel campo profughi di Moria. Nelle stesse ore arrivava all’aeroporto dell’isola una piccola pattuglia di attivisti di estrema destra tedeschi. A guidarli Mario Müller, leader del movimento identitario tedesco, che sotto il simbolo della lambda ha organizzato manifestazioni contro i migranti in tutta Europa.

Mitilene conta 20mila abitanti. Le vie del centro storico sono lastricate e affollate di bar e ristoranti. La vita turistica ed economica dell’isola ha base qui. La piccola collina, il cuore della città, è stata edificata in fretta all’inizio del secolo scorso, quando migliaia di turchi attraversarono questo braccio di mare. Scappavano dal conflitto tra Atene e Ankara. Lesbo è un’isola di profughi da generazioni. Quando, nell’estate del 2015, centinaia di migliaia di richiedenti asilo siriani sbarcarono su queste coste, la risposta della popolazione fu una reminiscenza. Un passato che vive nei racconti e nelle foto di famiglia. “Mia nonna era una bambina, aveva pochi ricordi di quando attraversarono il mare”: Daphne ha 28 anni, vive accanto alla centrale elettrica in disuso, fa parte della seconda generazione dei nati sull’isola. “Sono greca perché mia nonna è stata accolta, tento di non dimenticarlo mai”.

Skala Sikaminea è un piccolo villaggio di pescatori, chiuso in una stretta lingua di terra tra le montagne e il mare. “Sono nato in un paesino tra le montagne dell’entroterra dell’isola –racconta Stratos Valimos, un fascinoso pescatore quarantenne- ma quando ho visto questo mare ho deciso di non separarmene più”. Stratos per quasi due anni ha pescato più uomini che sardine. “Erano in acqua e sapevo di doverli salvare”. Per il suo impegno, il pescatore fu scelto a rappresentare l’intera isola, nel 2017 è stato candidato al Premio Nobel per la Pace. Accanto a lui, sulla spiaggia di sassi di Skala Sikaminea, arrivarono associazioni e privati da tutto il mondo. L’isola diventò il punto di riferimento per gli attivisti. Come la Palestina, il Tibet e i Paesi Baschi, migliaia di volontari hanno sposato la causa di Lesbo. Chi veniva sull’isola aveva mille compiti. Mancavano le strutture di accoglienza e chi sbarcava arrivava senza nulla. Gli impegni quotidiani, nella stragrande maggioranza dei casi gratuiti, creavano un legame indissolubile tra gli umanitari e il posto.

Il governo greco e l’Europa hanno delegato alla società civile quasi completamente il ruolo che gli spettava: l’accoglienza dei richiedenti asilo. Il campo di Moria, costruito su una ex base militare a pochi chilometri da Mitilene, sin dalla sua apertura ha ospitato molte più delle 3mila persone per cui è progettato. “Vivo qui da 4 anni –dice il nigeriano Savoy– il campo è cambiato molto. Non ce più spazio”. Oggi ci vivono 20mila persone, oltre 7mila sono bambini, con un rapporto di quasi uno a uno rispetto ai residenti di Mitilene. Senza elettricità e acqua corrente, con un bagno ogni 100 persone, gli abitanti di Moria vivono al di sotto di ogni standard accettabile. “Dimmi come facciamo a mantenere i bambini puliti, ad avere un minimo di dignità, anche solo a cucinare”. Mentre parla, Mariam fissa la montagna di sacchetti d’immondizia a pochi metri dalla sua tenda. Proprio lì accanto scorreva un ruscello stagionale, al suo posto ora c’è un fiume di bottiglie di plastica.

La chiusura della rotta balcanica è arrivata come un domino fino sull’isola. Atene ha progressivamente rallentato i trasferimenti verso la terraferma. Il campo è cresciuto, ma non ci sono stati investimenti e pianificazione. Gli uliveti, che crescono sulla collina attorno a Moria, si sono trasformati in una tendopoli. Senza scuole e strutture sanitarie adeguate. Muzdha ha 13 anni, in Afghanistan avrebbe appena finito il secondo ciclo scolare: “Non vado a scuola da un po’, qui non ci sono corsi né classi”. E per chi vive nel campo tutto si risolve in un solo e unico modo: una coda, che sia per i bagni o per un pasto caldo. I tempi per essere trasferiti sulla terraferma sono lunghi, lunghissimi. Il primo colloquio per la richiesta di asilo viene programmato tra i nove e i dodici mesi dall’arrivo. Questo tempo diluito trasforma il campo e l’intera isola in un limbo dove le condizioni di vita sono inumane.

A ottobre del 2018, quanto a Moria vivevano 9mila richiedenti asilo, Alessandro Barberio, psichiatra di Medici Senza Frontiere, lanciò la denuncia più forte: diversi bambini avevano tentato il suicidio. Il medico paragonava il campo a un manicomio prebasagliano. Un luogo dove le paure dei migranti riaffiorano e si alimentano. Il campo stesso diventava così il ‘grilletto’ che porta i profughi all’esaurimento, facendo riaffiorare paure e traumi del passato. Il manicomio non influisce solo sugli internati, ma anche su chi ci lavora e vive lì vicino. L’isola paradiso turistico, rifugio delle comunità hippy e Lgbt, si è logorata.

Il primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs, eletto a luglio del 2019, ha deciso di aumentare la capienza dei centri per migranti sulle isole. Oggi nell’Egeo settentrionale Chios, Samos e Kos ospitano altri 20mila richiedenti asilo. Il governo non vuole trasferirli sulla terraferma. La settimana scorsa Mītsotakīs ha tentato il colpo di mano. Ha inviato centinaia di agenti a Lesbo. Dovevano proteggere l’apertura del cantiere per un nuovo campo profughi. Altri 5mila posti letto. Gli isolani sono insorti. Anarchici, comunisti e fascisti si sono scontrati a turno con la polizia. Le manifestazioni hanno attirato a Lesbo diversi simpatizzanti di Alba Dorata, il partito neonazista che da anni raccoglie consensi nelle periferie ateniesi distrutte dalla crisi. Il primo ministro ha richiamato in capitale la polizia, annullando una visita a Mitilene programmata da tempo.

La strada che congiunge il centro cittadino al campo Moria corre lungo la costa, è piena di curve e di posti dove nascondersi. A lato della carreggiata c’è un’auto parcheggiata da giorni. Il lunotto posteriore è in frantumi. L’adesivo con il logo di una nota compagnia di noleggio è rimasto intatto. Il copione si è ripetuto uguale per giorni. Gruppi di autoproclamati vigilantes improvvisavano posti di blocco. Le auto con targhe non dell’isola venivano fermate. Il nemico è lo straniero. Non solo i profughi, ma tutti i non greci. Gli internazionali che sono a Lesbo in questo periodo dell’anno non sono turisti. Si tratta o di personale delle ong o di volontari e in alcuni casi di giornalisti. Le auto fermate vengono vandalizzate e i passeggeri minacciati, spesso malmenati. Della polizia non c’è traccia. Le ong hanno quindi sospeso il lavoro al campo e diversi volontari sono tornati nei loro paesi di origine.

Dalle coste a est di Lesbo il profilo della Turchia si vede nitido. Dista solo quattro miglia nautiche, circa sette chilometri. Dall’altra parte del mare si stanno radunando a migliaia. I trafficanti hanno ridotto il prezzo del viaggio, la polizia turca non effettua più il controllo delle spiagge. Atene è corsa ai ripari annunciando esercitazioni di tiro della Marina Militare. Mentre la Guardia Costiera tenta in ogni modo, commettendo anche molti abusi, di respingere i gommoni. Una nuova ondata di arrivi farebbe esplodere di nuovo il malcontento degli isolani. Pronti a capitalizzare ci sono vari gruppi della destra sovranista, come i suprematisti bianchi di Generation Identitaire. Arrivati a Lesbo giovedì sera, venerdì mattina si sono scontrati con un gruppo di isolani antifascisti.

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