A Bologna abbiamo perso solo una settimana. Ci è voluto il tempo che gli informatici di uno dei più grandi atenei italiani (circa 88mila studenti) adattassero l’applicazione Microsoft Teams alla didattica universitaria, ottimizzassero le infrastrutture di rete, e risolvessero – con il coordinamento del Rettore e dei suoi delegati, assieme al personale amministrativo e ai direttori di tutti i dipartimenti – mille problemi logistici e organizzativi. Hanno lavorato insieme dieci ore al giorno, anche nel weekend.

Non è stata cosa da poco, va detto, ma oggi il 60% degli insegnamenti dell’Università di Bologna si svolge in modalità online. La prossima settimana saranno online tutte le lezioni, eccetto quelle per cui la presenza in aula è indispensabile (certi laboratori e certe esercitazioni collettive, ad esempio).

Lo dico subito. La didattica in presenza, tutti insieme in aula, dove la docente può costruire, coltivare, adattare di continuo, ora dopo ora, minuto per minuto, la relazione umana con gli studenti è ineliminabile. Nel mio caso, prima del coronavirus avevo già cominciato il corso ed ero circa a metà, avevo già visto tante volte quelle facce ora sorridenti, ora dubbiose o preoccupate, mi ero già fermata tante volte a parlare con loro nei corridoi, nel mio studio, a volte persino al supermercato vicino. La relazione umana c’era, insomma. Andare online è stato il seguito naturale di qualcosa che era già nato. Perciò è stato facile. Persino divertente.

Aspetti negativi. Mi sento sola in aula, con un monitor davanti al naso e 150 sedie vuote più in là. Ci colleghiamo dalle stesse aule in cui di solito facciamo lezione, o dal nostro studio, negli stessi orari delle lezioni “normali”. I ragazzi e le ragazze tengono video e audio spenti, per non sovraccaricare la linea. Mi mancano le loro facce, tantissimo. Loro vedono me, ma io vedo solo tanti bollini tondi con le iniziali dei loro nomi: CS, BP, MT… Loro sentono la mia voce, ma io non sento la loro. Interagiscono con me solo per iscritto: nella striscia verticale a destra della chat, scorrono domande, dubbi, commenti.

Non è solo per evitare il sovraccarico della linea: se ogni studente/ssa aprisse l’audio per intervenire a voce, si perderebbe troppo tempo a gestire i turni di parola e il caos sarebbe immediato. Davanti al monitor, insomma, sentirsi sola è inevitabile, anche se dall’altra parte stanno oltre 120 studenti, come accade a me in questi giorni, e anche se scorrono in chat mille parole e faccine.

Aspetti positivi. Le faccine, appunto. Comparsa la prima, ho cominciato anch’io. Mentre parlo, non mostro solo slide, video, materiali multimediali, ma scrivo anch’io in chat. E mando faccine, tante. Non importa se vedono anche la mia faccia vera e sentono la mia voce, ogni tanto scrivo anch’io in chat, con lo stile tipico da chat, non troppo sbracato (sono una prof), ma veloce e colloquiale (senza esagerare, sono una prof). E inserisco faccine, ma non solo quelle: cuoricini, puntini di sospensione, punti esclamativi. Cerco insomma di stabilire lo stesso clima d’intesa, ironia e autoironia che da anni cerco in aula, per far passare i concetti più seri e difficili. In presenza sono addestrata a farlo da tempo, a distanza mi sto adattando in poche ore. Ma funziona, accidenti. Le faccine scaldano e fanno sorridere anche me, oltre a loro. Insieme a quelle, arrivano le battute, i giochi di parole, i meme. Basta, stop. Torniamo seri. E stanno buoni.

La scoperta più importante è stata che in chat fanno più domande, intervengono molto più che in aula. Lo confermano i colleghi con cui ho parlato. Accade anche a loro. Lo faccio notare ai ragazzi. “Siamo timidiiii”, “Pauuuura”, rispondono. Non di me, spero, perché le domande scritte sono comunque rivolte a me. “Più che altro, del confronto fra noi”. Ah, già. Gli faccio notare che non è bello. “Per forza. Ci insegnano a competere sempre, fin da piccoli”, concludono. Ah, già.

Tirando le somme. Confesso che mi sto affezionando a questa comunicazione silenziosa. Sto raccogliendo le loro domande, per organizzare meglio le prossime lezioni. Rifletterò ancora su pregi e difetti della distanza. “Ma non vi sentite soli anche voi?” chiedo. “Noi siamo in tre”, “Due”, “Noi quattro”. Ah. Furbi.”Beati voi, ma attenti a mantenere le distanze di sicurezza“, raccomando. “Certo, prof, non siamo fessi”. Non lo sono, no.

Porto anch’io un ospite in aula, dialoghiamo davanti al monitor. Mi sento meno sola e ci tempestano di domande. Sto immaginando di inserire qualche ora a distanza anche quando torneremo alla normalità, proprio per stimolare le domande. Per sciogliere le timidezze. “Bella idea, prof”. Promossa. “Credevo di essere una prof alla mano…”, ribadisco sconsolata. “La competizione, prof”. Ah, già. Forse vedono nel monitor la mia espressione un po’ mesta, e allora una propone al volo: “Alla fine, apriamo gli audio e facciamo un bell’applauso!”. Faccine e cuoricini a cascata. Lo fanno davvero, e d’improvviso sembra siano tutti in aula. È un bel momento. (Faccina sorridente).

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