Roberto show, don’t tell. Ventisei minuti di “spiegone” e il Cantico dei Cantici è diventato una minuzia attualizzata, robotica, in certi momenti febbrilmente inquietante, calata mostruosamente dall’alto. Altro che desiderio, altro che amore, altro che corpi frementi. Il libro biblico che racchiude un inatteso antichissimo ribollire di sensualità e pathos si è trasformato in una recita monocorde, ieratica, da parodia di Gassman che legge il menù, o le tabelle dell’oculista (gag alle quali il sommo si prestò, tra l’altro, con grande autoironia). Perché c’è qualcosa che si è spento in Roberto Benigni e da tempo. Qualcosa che riguarda la fiammella del desiderio dell’autenticità, di un conflitto sanguinoso tra Es e Super-Io.

Un comico irriverente, travolgente, genialmente volgare che è stato come fulminato sulla via di Damasco del baricchismo forzato. Vedi un leggio sul palco dell’Ariston e cominci a tremare. No, per favore, i gironi infernali, il purgatorio e il paradiso di Dante ce li hai già letti e riletti centinaia di volte. Che avrai da declamare ora? Curioso.

Benigni ha definitivamente abdicato la funzione del giullare appena gli hanno assegnato un Oscar per un film drammatico. Da lì in avanti, siamo a metà anni Novanta, si fatica a rintracciare un istante di comicità in purezza. Il suo eloquio è sempre così forzato, pallido, solenne. Anche ieri sera, quando dopo un’entrata in scena con una banda felliniana che avrebbe ammazzato un grizzly, Benigni ha accennato quell’uno-due de “la mona, la sorca, la patonza, la gnocca” a favore poi di una immediata marmorea compostezza, il gelo è calato sull’intera platea. Come se l’inno del corpo sciolto (ma se ce l’avesse letto come saremmo stati felici?) fosse di quelle robe brutte del passato che l’analista suggerisce di non sfiorare più pena gli incubi notturni. No, brutto, cacca (appunto), non si tocca.

Ecco allora il refrain che Benigni porta in scena da vent’anni oramai, da quando il suo ultimo film da regista, La tigre e la neve (ricordiamo, dove c’era tanta “poesia”) non viene nemmeno più trasmesso nelle repliche notturne di Rete4. È la lezione precotta del “bello” e del “buono” adattabile ad ogni occasione. Fateci caso, la prima cosa che ha detto Roberto entrando all’Ariston è stata: “ma che bell’ingresso”. E qualche metro più avanti: “ma che bello Sanremo”. Questa sua artificiosa giovialità è un linguaggio, addirittura un brand, che porta avanti in automatico senza oramai ancorarsi più al reale.

In questo delirio mistico dell’esegeta che per pronunciarsi sfiora le corde dell’altissimo la sue radici popolane, rozze, amabilmente volgari, non esistono più. Come se fosse naturale passare da “la verga, la mazza, l’asta, il pipino, lo sventrapapere” alla declamazione in eurovisione di una versione del Cantico dei Cantici tra convegno psicanalitico recalcatiano e Cinquanta sfumature di grigio. I “testicoli”, lo “stendardo”, “quanta grazia nei tuoi sbattimenti d’amore”, “l’odore del tuo sesso”, “le tue viscere ebbero un fremito”, “la dolcezza da succhiare”. Invenzioni linguistiche clamorosamente scontate. Una sintesi spuria, un lessico banalmente volgarizzato, che ottundono e sviliscono ogni malia misteriosa e giocosa presente anche solo in una delle tante versioni pubblicate attorno al sottile e sorprendente libro della Bibbia.

Infine, la recitazione. Disastrosa. Perché al netto di tutto quello che si sconta per arrivare a quei sei-sette minuti di versione “primitiva” (Benigni docet) c’è anche il metodo. Ed è qui che la pompa-magna del Benigni sanremese si affloscia definitivamente. Un attore che questa intensità, questa densità performativa, questa corda interiore ed intima del desiderio non ce l’ha nemmeno se l’acquistasse al volo su Amazon. Roba che a confronto Favino che recita Koltes, sempre all’Ariston anno 2018, è il successore di Stanislavskij.

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