Due profili incompatibili tra loro: uno è quello di un ricercatore universitario, l’altro è quello di un obiettivo al centro della rete dei servizi segreti, che sarà rapito, torturato e ucciso. Solo che i due profili appartengono alla stessa persona: Giulio Regeni, il dottorando dell’università di Cambridge trovato assassinato in un fosso lungo l’autostrada che dal Cairo porta ad Alessandria, in Egitto. “Non è Giulio, non è il suo lavoro e non è il modo in cui Giulio fa il suo lavoro a determinare quello che è successo. La chiave è proprio questa: capire cosa ha scaturito la decisione di rapirlo e assassinarlo”, dice Erasmo Palazzotto, presidente della commissione d’inchiesta sul caso del giovane originario di Fiumicello, in provincia di Udine. Dopo quattro anni fatti di relazioni diplomatiche interrotte e poi riallacciate, rapporti tra le rispettive Camere sospesi, inchieste depistate dal Cairo e portate avanti da Roma, da qualche settimana il Parlamento italiano è riuscito a far partire un organo parlamentare per indagare sul caso Regeni. “È stato molto complicato riuscire a varare la commissione, ma il merito è di questo Paese che non ha dimenticato Giulio. Non mi riferisco tanto alle istituzioni ma proprio a questo Paese, la società civile che al fianco della famiglia ha fatto di questa storia una battaglia simbolo per rivendicare verità e giustizia. Non solo per Giulio ma per tutti i Regeni del mondo”, spiega Palazzotto al fattoquotidiano.it.

Il deputato eletto da Liberi Uguali guida l’organo parlamentare che durante tutto il 2020 dovrà indagare sul caso del ricercatore italiano, un giallo al centro di equilibri precari e in continua evoluzione: da una parte c’è la mancata collaborazione delle autorità egiziane, dall’altra i rapporti diplomatici tra l’Italia e il Cairo. “La procura di Roma sa chi sono le persone che hanno rapito e presumibilmente torturato e ucciso Giulio, ma la nostra commissione non deve scrivere una verità giudiziaria, ma una verità storica. Assicurare alla giustizia i responsabili dell’omicidio è compito della magistratura, compito di questa commissione è capire perché Giulio è stato ucciso“, continua Palazzotto. Convinto che a quattro anni dall’assassinio di Regeni “non è pensabile ricominciare daccapo con un atteggiamento che è sostanzialmente dilatorio o può preparare ad altri potenziali depistaggi. Penso che se non ci sarà una svolta nelle indagini, se non arriverà una sostanziale passo avanti dal Cairo nei prossimi giorni, sia arrivato il momento di dare un segnale all’Egitto“.

Onorevole Palazzotto, che tipo di segnale? Il ritiro dell’ambasciatore?
Quello è solo uno degli strumenti della diplomazia, ma ne esistono diversissimi. Di sicuro noi non possiamo continuare a mantenere le relazioni diplomatiche se le cose continuano ad andare in questo modo.

Cioè?
Se nei rapporti con l’Egitto non cambia qualcosa a breve non possiamo continuare a fare finta di niente. Le relazioni diplomatiche e la presenza del nostro ambasciatore al Cairo hanno senso solo se ci sono sviluppi.

Che però fino a questo momento sono mancati.
Per questo motivo dico che riallacciare relazioni diplomatiche in funzione di una nuova fase di cooperazione può avere un senso. Ma non siamo noi che dobbiamo riallacciare le relazioni per cercare collaborazione investigativa: deve essere l’Egitto a fare importanti passi avanti su Regeni per preservare i rapporti che ha con noi. Fino a quando questa vicenda rimane insoluta, l’Italia non potrà avere normali relazioni diplomatiche, politiche, commerciali con l’Egitto. Questa è una vicenda che interrompe una storia consolidata nei rapporti tra Roma e il Cairo.

La famiglia Regeni ha chiesto al presidente Conte di dichiarare l’Egitto “Paese non sicuro” e ritirare l’ambasciatore: è d’accordo?
Premetto che io sono stato tra quelli che hanno protestato per l’invio del nostro ambasciatore al Cairo da parte dell’allora ministro Alfano. Ma oggi da presidente della commissione d’inchiesta devo solo pensare a ricostruire la verità. In ogni caso penso comunuque che la famiglia faccia bene a rivendicare una maggiore forza nell’azione del governo nei confronti dell’Egitto.

Roberto Fico ha sospeso i rapporti tra la Camera dei deputati e il Parlamento egiziano. Lei di Montecitorio è un componente: condivide la scelta?
Io penso che il presidente Fico abbia fatto bene, perché la diplomazia parlamentare è uno strumento molto importante. Dal momento in cui non arrivavano segnali dal Cairo, il presidente Fico ha fatto un passo che ha restituito dignità alle nostre istituzioni e ha garantito vicinanza alla famiglia Regeni.

Come procede il lavoro della commissione?
Al momento siamo all’inizio, quindi è presto per tirare le somme. La prima audizione che abbiamo fatto è stata con la procura. Sentiremo i principali attori istituzionali di questa vicenda. Siamo in attesa di sentire la famiglia, che ha fatto un lavoro straordinario nel tenere alta l’attenzione e rivendicare una battaglia di civiltà e dignità per il nostro Paese.

Ascolterete anche autorità egiziane?
Valuteremo. I nostri poteri finiscono nel territorio italiano, ma sicuramente faremo noi una missione in Egitto. Stiamo cominciando a mettere insieme i pezzi del puzzle.

Quale è la prima tessera?
Giulio Regeni, che è – lo voglio sottolineare – sicuramente vittima inconsapevole di quello che è accaduto. Una figura che in qualche modo finisce al centro di qualcosa molto più grande di lui. Stiamo parlando di un ricercatore che era in Egitto per svolgere un lavoro in maniera appassionata e che in nessun momento si preoccupa di qualcosa neanche lontanamente simile a quello che poi purtroppo è successo. Quindi non è Giulio, non è il suo lavoro e non è il modo in cui Giulio fa il suo lavoro – cioè con grande cautela in un contesto difficile – a determinare quello che è succeso.

Nel frattempo era già sotto osservazione da parte dell’intelligence.
Sì, noi ora sappiamo che quando Giulio torna a casa per le vacanze di Natale è già dentro la rete dei servizi. Una rete che si stringe attorno a lui con un sistema d’informatori composto dalle persone a lui più vicine. Dalla sua amica egiziana al suo coinquilino che forniscono informazioni all’intelligence. Questa rete si stringe sempre di più fino ad arrivare al 25 gennaio del 2016.

Cosa determina la decisione di rapire, torturare e uccidere un ricercatore universitario?
La chiave è proprio questa: capire chi ha dato l’ordine. E soprattutto perché.

È questo il vostro obiettivo?
Noi abbiamo gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, ma non ci sostituiremo alla procura. Lavoreremo sulla base del lavoro della magistratura, ma noi dobbiamo ricostruire il contesto nel quale è maturato questo omicidio. Noi non dobbiamo scrivere una verità giudiziaria, ma una verità storica.

Fermiamoci alla verità giudiziaria per il momento: avete ascoltato i pm della procura di Roma, a che punto è la loro indagine?
È in stato molto avanzato, molto più di quanto potessimo immaginare. I pm hanno ricostruito questa trama costruita dai servizi segreti egiziani, che si è stretta sempre di più fino ad arrivare al rapimento. Per cui noi oggi abbiamo evidenze indiscutibili su chi ha rapito Giuilio Regeni, cioè cinque agenti della National security agency egiziana che sono iscritti nel registro degli indagati della procura di Roma.

Che sono liberi in Egitto: come è possibile?
È uno dei cortocircuiti giudiziari che si è creato. Al momento in cui la procura ha mandato una rogatoria in Egitto, dal Cairo non è arrivata alcuna risposta.

D’altra parte era proprio il Cairo che ha tentato di depistare le indagini.
Di tentativi di depistaggio da parte dell’autorità egiziana ne hanno identificati almeno quattro. Da quando hanno cercato di far passare l’omicidio per una vicenda legata a questioni sessuali, con il corpo abbandonato appositamente seminudo in strada. Passando dai testimoni, che per loro stessa amminissione erano fasulli. Fino alle autorità egiziane che sostenevano di aver trovato i responsabili: banditi di strada uccisi in un conflitto a fuoco che nulla c’entravano con Regeni.

Poi ci sono i video taroccati.
Nei video di sorveglianza della metropolitana che ci hanno inviato le autorità egiziane mancavano alcuni pezzi. Casualmente erano quelli dove compariva Giulio Regeni.

A questo punto le domanda è: perché gli egiziani hanno depistato?
La risposta è probabilmente collegata all’altra domanda principale, cioè perché è stato ucciso Regeni?

È stato solo un errore di persona? O c’è qualcosa di più? L’Egitto è l’unico Paese coinvolto?
Non abbiamo ancora abbastanza elementi per comprendere se sia veramente solo un errore di persona, un complotto, o ancora qualcos’altro. Approfondiremo ogni aspetto di questa vicenda ma al momento è presto per formulare o diffondere ipotesi. Ne riparliamo alla fine del nostro lavoro. Il metodo che ci vogliamo dare è formulare le ipotesi solo alla fine del lavoro della commissione. Sulla base del materiale acquisito il nostro obiettivo è stabilire il motivo dell’omicidio Regeni, stabilire il movente e perché gli egiziani depistano.

Che peso hanno in questa storia gli interessi economici dell’Italia in Egitto?
L’Egitto è un partner commerciale importante per l’Italia, è un Paese che per collocazione geografica e peso che esercita sul Mediterraneo ha importanza strategica. Questa vicenda mette una serie ipotetica sui nostri rapporti con loro. Esiste però una ragion di Stato che è più importante di tutte le altre: la verità su cosa è successo a Regeni riguarda la dignità di questo Paese, il rispetto dei valori che sono scritti nella nostra Costituzione. Il tema dei rapporti economici, della realpolitik, viene in secondo piano. Oggi dovrebbe essere d’interesse in primo luogo dell’Egitto fare luce su quello che è accaduto. Noi non possiamo continuare così: da parte dell’Egitto deve arrivare presto un segnale molto consistente per la ricerca della verità.

Per esempio?

Per esempio rispondere alla rogatoria da parte della procura di Roma. Sarebbe un primo passo per manifestare la volontà di collaborare. Ad oggi questa volontà non è mai stata manifestata, mentre abbiamo registrato il tentativo di occultare, di far passare tempo, sperando che la vicenda finisca nel dimenticatoio. Mi pare questo Paese abbia dimostrato che non è disponibile a passare sopra a questa vicenda.

In realtà nell’estate del 2017 l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano ha rimandato in Egitto il nostro ambasciatore.
Infatti non parlo delle istituzioni ma proprio di questo Paese, la società civile che al fianco della famiglia Regeni ha fatto di questa battaglia una simbolo di rivendicazione di verità e giustizia non solo per Giulio, ma per tutti i Regeni del mondo. Giulio Regeni potevamo essere noi.

In che senso?
Per una generazione, per la mia generazione, la storia di Regeni è una storia in cui chiunque si può riconoscere. Giulio poteva essere uno di noi, era uno di noi. Faceva parte di questa generazione che è curiosa di scoprire il mondo, che pur rivendicando l’appartenenza al proprio Paese si sente cittadina del mondo e quindi studia e difende una serie di valori come quello del rispetto dei diritti umani. Sono valori su cui noi non possiamo transigere. Al netto della vicenda giudiziaria, il tema delle relazioni diplomatiche del nostro Paese è: può l’Italia permettersi di far finta di niente rispetto a Paesi in cui la violazione dei diritti umani è sistemica e non c’è nessuna tutela per il rispetto della dignità e della vita di una persona?

La risposta immagino sia negativa.
Io credo che noi non ce lo possiamo permettere. Noi all’Egitto dobbiamo chiedere la collaborazione per assicurare alla giustizia i colpevoli dell’omicidio Regeni come primo passo di una transizione democratica. Come può l’Egitto garantire una transizione di questo tipo se non è in grado di dirci cosa è successo a un ragazzo, che sappiamo essere stato rapito da cinque agenti dei loro servizi segreti?

Recentemente il procuratore egiziano ha crato una nuova squadra d’investigatori per indagare su Regeni: che ne pensa?
C’è stato un primo incontro con i nostri investigatori, che è stato un flop. Ce ne sarà un altro tra i procuratori. Uno può augurarsi che ci sia un cambio di passo, ma ad oggi non abbiamo alcun elemento per dirlo.

Dobbiamo aspettare che cada Al Sisi per sapere cosa è successo? Potrebbero volerci 30 anni.
Io credo di no. Sono fiducioso del lavoro che sta facendo la nostra procura ma e in ogni caso credo che comunque noi non possiamo permetterci di aspettare ancora – addirittura 30 anni – per la verità di Giulio Regeni. E anche se ciò dovesse accadere non possiamo fare finta che in questi 30 anni non sia successo niente.

Twitter: @pipitone87

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