Una camera inquadra una strada del Maryland. A qualche isolato dal cuore di Washington, un uomo con un giubbotto in pelle nera strattona un corpo riverso sull’asfalto. Lo trascina e calpesta quasi fosse un pupazzo. Pugni all’addome, calci alle testa. Una violenza inaudita, ferina. Pochi minuti dopo un’altra camera inquadra il volto della vittima. Ha 36 anni, la barba rossa e i capelli ricci. Farfuglia di rabbia, parole confuse. A vederlo così si direbbe un clochard, eppure ricorda qualcuno. Seduto, in manette su un marciapiede, con il torso nudo e ricoperto di tatuaggi, c’è Delonte West: una stella Nba che ha smesso di brillare, asfissiato dal suo bipolarismo.

Gli anni più dolci
Delonte Maurice West nasce il 26 luglio 1983 a Washington DC e la sua storia non è poi troppo diversa da quella di tanti altri atleti afroamericani oggi nella National Basketball League. Gli ingredienti sono spesso gli stessi: un’infanzia al limite della povertà, un’adolescenza spesa tra i campetti evitando lo spaccio, la passione e la fede a salvarti la vita. Basket e Dio, famiglia e quartiere. Il talento poi fa il resto. La formazione liceale gli viene offerta dalla Eleanor Roosevelt High School, dove giocando da guardia segna 20.2 punti a partita, cattura 6.5 rimbalzi, smazza 3.9 assist e recupera 3.1 palloni. Quel che basta per conquistare il titolo di Giocatore dell’anno e guadagnarsi una chiamata dalla Saint Joseph’s University di Philadelphia. Affiancato dal futuro All Star Jameer Nelson, Delonte trascina il college alle fasi finali del Torneo Ncaa (il prestigioso campionato universitario) e nel 2004 convince Boston a spendere per lui la ventiquattresima chiamata al Draft Nba. Sotto l’ala di due leggende come coach Doc Rivers e capitan Paul Pierce, West si dimostra un giocatore solido. Uno di quei cagnacci pronti a lasciare in campo anche il sangue, il primo a presentarsi agli allenamenti e l’ultimo ad andarsene. Il classico tipo che non si risparmia quando c’è da sudare e che fa impazzire i tifosi per la sua abnegazione. I Celtics, tuttavia, sono una squadra in ricostruzione e nel 2007 Delonte viene sacrificato per fare spazio a Ray Allen. Scambiato con Seattle, resta sulla West Coast giusto il tempo di passare da Starbucks prima di trasferirsi in Ohio, alla corte di LeBron James. Da una manciata di anni, infatti, Cleveland è stata messa sulla mappa del basket americano dal talento del Prescelto. Cestisticamente sono gli anni più dolci per West, ma qualcosa nella sua mente già comincia a scricchiolare.

The dark side of the ball
I 16 milioni di dollari guadagnati, le 432 partite giocate e gli oltre 4000 punti messi a referto nelle otto stagioni Nba, infatti, non sono che il lato luminoso di una vita divorata delle ombre. Attacchi di panico, braccia incise da lamette, tentativi di suicidio: Delonte convive con la depressione da quando ha 14 anni, ma c’è anche altro che gli si insinua nella testa. Una rabbia immotivata, che cresce sino a esplodere nel 2008, a Cleveland, durante un training camp. L’atmosfera è quella di una partitella pre-campionato, la stagione regolare è ancora lontana e quei palleggi servono solo a spezzare fiato e far gambe. Poi un fischio arbitrale, una chiamata superficiale. West ricorda poco di quegli istanti e la sua reazione è incomprensibile, almeno sul momento. Una violenza che spaventa i compagni e terrorizza anche lui. “Scusate, ma ho bisogno di rimettere insieme i pensieri”, sussurra appena torna in sé, prima di abbandonare la palestra. Sindrome bipolare, questa la diagnosi. Un affollarsi di personalità multiple che consumano la mente fino a farti dimenticare chi sei. Per tenerla sotto controllo West comincia a trangugiare medicine tra cui il Seroquel, un farmaco antipsicotico di cui è letteralmente imbottito quando, nel settembre 2009, si consegna a un posto di blocco lungo una strada di Washington. “Non riuscivo a guidare. Mi si chiudevano gli occhi”, balbetta mentre smonta dalla moto con gli occhi a mezz’asta e un arsenale addosso. Un coltello, una Beretta 9mm, una Ruger calibro 357 magnum e un fucile Remington 870 chiuso nella custodia di una chitarra. Armi regolarmente denunciate e che West stava semplicemente trasferendo in una seconda casa, per tenerle lontane dai figli. Ma di certo non la migliore della pubblicità quando il mondo comincia a leggerti come un pazzo. I giornali ci vanno a nozze, lo paragonano a El Mariachi, deridono la sua malattia. Passano pochi mesi e il suo matrimonio salta in aria, poi è la carriera a scoppiare.

I chiacchiericci e il tramonto
Siamo nella primavera del 2010 e i Cavs sono a un passo dalle Finals Nba. L’avversario sono i suoi Boston Celtics – anzi, quelli di Pierce, Allen e Garnett – e la serie si consuma canestro dopo canestro finché Cleveland non crolla, inspiegabilmente. La franchigia detentrice del miglior record stagionale si scioglie in due gare di fatto neppure giocate. C’è chi parla di un calo di forma, chi incolpa gli infortuni. Ma a farsi largo è anche un altro brusio, un chiacchiericcio pruriginoso. Gossip di serie C. Alcune voci riportano, infatti, di uno scandalo che ha spezzato lo spogliatoio dei Cavaliers, uno scandalo riguardante una presunta relazione tra Delonte West e Gloria Marie James, madre di Lebron. I media banchettano e ricamano su un rumour che non ha mai trovato conferma (ma neppure una solida smentita) e West passa da beniamino a capro espiatorio nel giro di un amen. King James lascia l’Ohio per volare a Miami, direzione South Beach, ma ormai a Cleveland non c’è più posto per West, che torna quindi a Boston. Un anno ancora e a scommettere su di lui sono i Dallas Mavericks, anche lì tuttavia dura giusto un refolo. Poi arrivano la Cina, il Venezuela e una serie di scelte sbagliate e incomprensibili. A 29 anni Delonte West non è già più un giocatore. E il peggio deve ancora arrivare.

E venne l’inferno
Nel 2015 scende in campo per l’ultima volta, su un parquet di D-League (la Lega di sviluppo della Nba) ma ormai fatica a concentrarsi sul basket. Tra i canestri qualche amico però gli è rimasto e c’è chi prova ad aiutarlo per davvero. Il general manager dei Boston Celtics, per esempio, gli offre un posto come scout, ma Delonte si rivela ormai inaffidabile. Mark Cuban e Rick Carlisle, proprietario e coach di Dallas, gli allungano invece dei soldi e provano a convincerlo a curarsi, anche questo tuttavia è un impegno che ormai il ragazzo fatica a rispettare. Passano pochi mesi e viene sorpreso a girovagare per Houston scalzo, con indosso il pigiama di un ospedale. C’è chi dice sia un senzatetto, ma lui smentisce dichiarando di lavorare con il fratello per un’impresa edile di Washington. Poi il silenzio, nessuna notizia, almeno fino a pochi giorni fa. Almeno fino a quel video. Da un lato quel pestaggio brutale. Una violenza gratuita e oscena. Dall’altro quello sguardo, il volto perso carico di rabbia e dolore, le parole che raschiano la gola senza trovarvi un senso. Una catenina d’oro al collo e le braccia ammanettate dietro la schiena. Un uomo disperato, di cui ancora c’è chi ride. E allora ritorna in mente una sua vecchia intervista di qualche anno fa: “Prima tutti i miei coach e colleghi dicevano che sarebbero andati in guerra con me. Da quando mi hanno diagnosticato la malattia, in un attimo, questa voglia di andare in guerra è diventata: avrà preso le sue medicine oggi? Che Delonte arriverà?”. Con queste parole West denunciava l’ipocrisia dello sport professionistico. Un mondo in cui si sbandierano valori, ma si tema ancora la diversità. Un universo di super atleti, dove gli uomini possono tutto, ma in cui la malattia mentale è ancora un tabù. Quelle parole gridavano anche il dolore intimo di un’anima fragile che forse già aveva capito: l’inferno era appena cominciato.

Twitter: @Ocram_Palomo

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