Sarà una festa di compleanno semplice, in compagnia dei familiari e di alcuni amici. Nei giorni precedenti i preparativi sono stati minimi. Dino Meneghin, il mito del basket italiano, compie 70 anni il 18 gennaio ed è “meglio non pensare a quanti sono”, scherza. “Non sento il bisogno di fare un bilancio della mia vita e della mia carriera. Vivo questa giornata in maniera molto tranquilla”. Il monumento, anche se Meneghin si schermisce quando viene chiamato così, è ancora bello in piedi in tutti i suoi 2 metri e passa d’altezza: “Qualche crepa c’è, ma fortunatamente va tutto bene”.

Meneghin ha smesso di giocare a pallacanestro a 44 anni, dopo aver esordito a Varese a 16. Quando nel 1981 la Ignis lo cedette a Milano, lui pensava di giocare ancora un paio di stagioni e che poi a 33 anni avrebbe smesso. Giocò fino al 1994. “Fu Dan Peterson – racconta – ad allungarmi la carriera perché mi disse di ragionare intanto su un triennio in modo da poter partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles. Da tutti gli allenatori ho imparato qualcosa, Peterson mi ha insegnato a sfruttare la mia esperienza. Non mi chiedeva di fare l’eroe e risolvere le partite da solo. Piuttosto di essere un uomo squadra”. Peterson con i suoi buoni uffici americani è riuscito nel 2002 ad agevolare l’entrata, unico italiano, di Meneghin nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, probabilmente il massimo riconoscimento della pallacanestro internazionale. “Non lo ammetterà, ma lì è sempre stato molto rispettato e le sue conoscenze mi hanno certamente aiutato. Negli States mi hanno trattato come i grandissimi”.

Lo scorso novembre Milano ha ritirato la sua casacca numero 11, un omaggio per quanto fatto e vinto con la squadra. Dino arrivava da Varese, dopo aver vinto tanti scudetti e coppe dei campioni, i primi quelli a cui lui dedica un posto speciale nel proprio cuore. E invece Grenoble, dove la posizioniamo? “Lì, ho giocato la mia più brutta partita in carriera nel 1979 nella finale di Coppa dei Campioni contro Cantù e nel 1983 ho fatto una cosa che non avrei più rifatto, rifiutandomi di entrare in campo dalla panchina perché reduce da un’operazione. A Grenoble non ci sono più stato e anche oggi girerei alla larga se dovessi passare da quelle parti”.

Meneghin non si sente per niente un mito. “No, sono stato semplicemente uno che ha lavorato tanto per ottenere un successo, ancora di più dopo una sconfitta. Ecco perché lo sport è importante perché questi insegnamenti servono anche nella vita”.

La pallacanestro è stato il suo romanzo familiare. Con il figlio Andrea, con cui ha avuto il privilegio di giocare da avversario nel 1990, quando Dino aveva 40 anni e l’erede 16, i rapporti non sono sempre stati costanti. La vita di Dino, perennemente in giro per il mondo, non ha di certo aiutato. Ma il feeling si è ricomposto in Nazionale nei Novanta, quando Andrea era uno dei giocatori più importanti e Dino fungeva da team manager. Passare settimane insieme, giorno dopo giorno, ha cementato il rapporto. “Andrea è stato sfortunato come giocatore perché dopo le grandi vittorie ha subito infortuni che in parte hanno limitato il suo enorme talento”. È più difficile invece avere rimpianti, se hai avuto la carriera di Dino. “Mi sarebbe piaciuto – conclude – giocare in Nba, ci sono andato vicino. Anche se non lo dicono, è il sogno di tutti i giocatori di basket. Ma lo farò sicuramente nella prossima vita…”.

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