Nel 2019 sono state completate negli Usa 235 Ipo (cioè quotazioni in borsa di società per azioni), in calo rispetto alle 274 del 2018, ma le 515 operazioni nel biennio 2018-19 sono un record assoluto per un periodo di 24 mesi. Inoltre nel 2019 i ricavi lordi sono stati pari a 65,4 miliardi di dollari, in salita del 3% rispetto a 63,5 miliardi nel 2018. Il taglio medio delle Ipo nel 2019 è stato pari a 279 milioni di dollari, il più alto dal 2014.

In parole povere uno degli indicatori principali di una bolla azionaria continua a macinare successi. Tuttavia qualche segnale poco rassicurante inizia a stagliarsi. Uno dei fenomeni che ha inflitto delusioni più cocenti agli investitori intrisi di dabbenaggine è stata la batosta seguita ad alcune Ipo di alto profilo nel settore tecnologico, sbandierate come l’equivalente a Wall Street del Campo dei Miracoli. Nel 2019, i fondi con le casse gonfie attendevano in una sorta di estasi mistica le Ipo per la prossima generazione di titoli tecnologici, tra cui Airbnb, Lyft, Peloton, Pinterest, Slack, Uber e WeWork.

Lyft (oltre 2,5 miliardi di dollari) e Uber (8,1 miliardi di dollari) hanno inflitto legnate non da poco ai creduloni che trangugiano avidamente le mirabolanti baggianate orecchiate su Cnbc o su Bloomberg. Dopo che in fase di Ipo se ne sono celebrate le incantevoli sorti, alla prova di fatti (non delle chiacchiere) i prezzi di questi due titoli continuano a languire abbondantemente al di sotto dei prezzi fatti registrare al debutto sui listini. Parimenti Slack, un sistema cervellotico e inefficiente di comunicazioni via Internet (una specie di WhatsApp macchinoso che attira torme di nerd incalliti), quotato tramite un’offerta diretta, ha fatto un patetico buco nell’acqua.

Insomma, per quanto pieno di grulli, con le tasche imbottite di liquidità generosamente immessa dalle banche centrali, il mercato sembra meno propenso a pagare prezzi di fantasia per aziende che i profitti li vedranno al massimo servendosi di un gigantesco telescopio puntato su un buco nero.

In tempi che si annunciano incerti e quindi in cui il contante sarà di nuovo re, gli investitori aspirano a ricavi in solida crescita, o quantomeno ragionevoli prospettive di redditività. E pretendono di vedere all’opera un team di manager che – oltre a inzeppare decine di fogli Excel con proiezioni di pura fantasia – sappiano gestire la complessità di un’azienda innovativa in tempi grami.

Il caso paradigmatico della ritrovata sanità mentale è stato WeWork (The We Company), una società che affitta uffici condivisi: spacciata ai boccaloni per business ad alto contenuto tecnologico (mentre trattasi di un affittacamere, per quanto ben verniciate) ha dovuto ignominiosamente abbandonare la sua Ipo pianificata a settembre. Qualcuno, con un minimo di materia grigia a far bella mostra di sé nella calotta cranica, si è chiesto se dopo aver registrato perdite di 1,37 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2019 una tale azienda potesse mai sopravvivere. A stretto giro il Ceo si è dimesso ammettendo in seguito di aver creato un disastro e il conglomerato giapponese che ne deteneva la maggioranza azionaria, Softbank Group Corporation, dall’indicibile caos generato ha subito una terribile mazzata alla sua reputazione. Al momento non è chiaro se o quando WeWork andrà in borsa.

Nonostante i rovesci e l’imbarazzo, gli imbonitori non hanno sgombrato il campo. Si stanno arroccando cercando il colpo di reni con l’Ipo di Airbnb e di GitLab pianificate per il 2020. Però la baldanza di un tempo ha lasciato spazio alla prudenza: chi gestisce i dossier pare propendere per un piazzamento diretto che aggira le banche di investimento di Wall Street, richiede un numero minore di cervelli in stato di sospensione e, last but not least, offre meno incentivi a valutazioni in contrasto con elementari criteri di ragionevolezza.

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