Fine pena mai. I giudice della Corte d’assise di Bologna hanno condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per concorso in strage. Quella della stazione di Bologna che provocò 85 morti e 200 feriti. Prima che i giudici entrassero in camera di consiglio sentenza l’imputato ha chiesto la parola ribadire la sua innocenza: “Io sono pentito di quello che ho fatto, di quello che non ho fatto non mi posso pentire. Dico anche a nome dei miei compagni di gruppo che non abbiamo da chiedere perdono a nessuno per quanto successo il 2 agosto 1980“.Durante la requisitoria il pm Enrico Cieri aveva detto che un delitto come “quello non merita altra pena”. Il presidente dell’Associazione vittime della strage, Paolo Bolognesi, pensa che questa sentenza possa aprire “nuovi scenari” di indagine. Per la strage sono condannati in via definitiva gli altri ex Nar Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma è il capitolo sui mandanti che continua a rimanere un mistero. Dopo quasi due anni di dibattimento, decine di testimoni e perizie, a 40 anni dai fatti, è arrivato un nuovo verdetto.

“La pubblica accusa in questo processo aveva chiesto la condanna alla pena dell’ergastolo per concorso in strage di Gilberto Cavallini. Noi anche. Questo processo ha condannato il quarto Nar alla pena dell’ergastolo in questa strage fascista, con inquietanti collegamenti con apparati dello Stato deviati il cui ruolo, in quest’istruttoria, ha iniziato ad emergere – spiega Andrea Speranzoni, l’avvocato delle parti civili – Dobbiamo leggere le motivazioni. Sappiamo che c’è, da due anni, un’indagine sul tema dei mandanti davanti alla Procura generale. In questo dibattimento è emerso che Cavallini aveva dei numeri di telefono di una struttura dell’intelligence, è emerso un covo dei Nar a Roma, in via Gradoli, in un luogo noto per altre vicende di terrorismo dei tre anni precedenti. Sono emersi molti punti di contatto di Cavallini e dei Nar con apparati deviati dello Stato. Questa condanna di sentenza alla pena dell’ergastolo ne conferma la responsabilità e riteniamo recepirà anche questi accertamenti che l’istruttoria ha consentito di fare e che ci mostrano non più dei Nar spontaneisti ma collegati con apparati dello Stato“.

La Corte di assise ha riqualificato il reato dall’articolo 285 del codice penale, che punisce “chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage territorio dello Stato o in una parte di esso” nel reato previsto all’articolo 422, che punisce chiunque fuori dei casi previsti dall’altro reato “al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità” provocando la morte di persone. Il significato, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, tra 180 giorni, è dunque che, secondo l’avvocato difensore dell’imputato, Alessandro Pellegrini, “non c’era la finalità di attentare alla sicurezza dello Stato“.

I familiari delle vittime: “Sentenza non cancella morti, ma rende giustizia” – I giudici hanno disposto una provvisionale immediatamente esecutiva di 100mila euro in favore delle parti civili che hanno perso un parente di primo grado o il coniuge; di 50mila euro in favore delle parti civili che hanno perso un parente di secondo grado o un affine di primo o secondo; di 30mila euro in favore delle parti civili che hanno perso un parente o un affine di grado ulteriore; di 15mila euro in favore di ogni parte civile che abbia riportato lesioni in proprio e di 10mila euro in favore di ogni parte civile che abbia un parente che ha riportato lesioni. “La sentenza non cancella gli 85 morti e i 200 feriti, ma rende giustizia a noi familiari delle vittime che abbiamo sempre avuto la costanza di insistere su questi processi” dice la vicepresidente dell’associazione, Anna Pizzirana. La difesa Cavallini aveva detto che 40 anni dopo è inumano condannare una persona: “No, non è inumano, perché hanno condannato anche quelli della Shoah dopo 70 anni, non vedo perché debba essere inumano. È una giustizia che viene fatta ai familiari delle vittime, per la nostra perseveranza. E, se le carte processuali lette, rilette esaminate da questa Corte hanno stabilito così è una sentenza corretta”. Per il depistaggio sulle indagini invece furono condannati l’ex capo della P2 Licio Gelli, gli ufficiali dell’allora servizio segreto militare (Sismi) Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e il faccendiere Francesco Pazienza (ex collaboratore del Sismi).

Gilberto Cavallini (a sinistra)

Cavallini: “Non accetto di dover pagare per quello che non ho fatto” – “Ribadisco il concetto espresso da Francesca Mambro davanti a una Corte di assise, molti anni fa. Non siamo noi che dobbiamo abbassare gli occhi a Bologna – ha detto Cavallini in semilibertà in carcere di Terni durante le dichiarazioni spontanee -. Se voi pensate che ragazzini di poco più 20 anni, alcuni minorenni, io poco più grande, siano stati la longa manus o gli esecutori di ordini di gruppi di potere come la P2 o di gruppi criminali come la mafia fate un grosso errore di fronte alla verità e al Paese”. “Io in ogni caso sono pronto a seguire le conseguenze. Mi sono imposto di accettare tutto quello viene e offrire la sofferenza a nostro Signore. “Io – ha detto l’ex terrorista – sono in carcere dal 12 settembre 1983. Ad oggi credo che siano oltre 37 anni, ho perso il conto, non ha importanza un giorno in più o un giorno meno. Gli anni di galera me li sono meritati e non li contesto, li ho scontati tutti e sono pronto a scontarne ancora. La cosa non mi piace, però la accetto. Credo di aver fatto cose per le quali queste condanne siano state meritate. Quello che non accetto è dover pagare per quello che non ho fatto, non tanto e non solo in termini carcerari, ma anche in termini di immagine e di credibilità”.

Cavallini ha parlato anche in prima persona plurale facendo riferimento agli altri Nar. “Tutto quello che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto alla luce del sole, a viso scoperto. Lo abbiamo rivendicato, abbiamo pagato, ci siamo resi conto che è stato tutto inutile e comunque sbagliato. In qualche maniera abbiamo cercato di riparare, chi più chi meno, coi mezzi che poteva, e a questo punto, e non da oggi, trovarci ancora a dover subire la falsificazione della nostra storia è una cosa che io non posso accettare”. “Per quello che abbiamo fatto – ha proseguito – non solo stiamo subendo anni di carcere, ma qualcuno ha lasciato anche la vita in mezzo alla strada, oltre alle nostre vittime. Alessandro Alibrandi, Giorgio Vale, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti hanno rischiato seriamente di morire, Ciavardini è stato ferito e io non sono stato ammazzato per una serie di fatalità, perché ho fatto di tutto per offrire la mia vita anche in quella circostanza”.

La tesi dell’accusa e i “quattro chiodi” – Durante la requisitoria il pm Enrico Cieri aveva parlato di “quattro chiodi” che costituiscono gli indizi su cui si fondò la condanna all’ergastolo, per la strage del 2 agosto, di Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, e che “devono portarvi – aveva detto rivolgendosi ai giudici della Corte d’Assise – alla conclusione assolutamente obbligata della condivisione piena del progetto stragistico anche da parte di Cavallini, che in quei giorni ospitò il resto della banda in casa sua e di Flavia Sbrojavacca a Villorba di Treviso”. I “quattro chiodi”, aveva spiegato Cieri durante la sua requisitoria, sono le dichiarazioni di Massimo Sparti, principale accusatore dei Nar per la strage, “ancora mai contraddette”, e il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli, leader siciliano di Terza Posizione, ucciso perché avrebbe potuto rivelare “sconcertanti responsabilità sulla strage”. E ancora, la telefonata di Luigi Ciavardini a Cecilia Loreti, sua amica, per avvisarla di posticipare un viaggio a Venezia dal 2 al 3 agosto, poi infine il fatto che l’alibi fornito dai Nar per il giorno della strage è “fasullo”. “Non è credibile – aveva spiegato ancora il pm – che i quattro, la mattina del 2 agosto 1980 si siano divisi, che solo in tre siano andati a Bologna con 15 chili di tritolo, non si capisce come, visto che erano tutti insieme nella macchina di Flavia Sbrojavacca, che invece Cavallini sia andato a Venezia da solo per far filettare un’arma”.

Processo nato dall’avocazione della procura generale – Il processo, nato dall’avocazione del fascicolo da parte della procura generale, è iniziato l’11 marzo del 2018. Nel corso del dibattimento sono stati moltissimi gli atti istruttori. C’è stato anche il conferimento di perizie: una genetica, una chimica sull’esplosione. Sono stati sentiti come testimoni anche i tre condannati in via definitiva. In una delle ultime udienze in cui è stata discussa appunto la perizia genetica perché era emersa l’ipotesi di una 86esima persona deceduta. Sul punto dopo però era stata chiara l’ordinanza del presidente della corte, Michele Leoni: “Qui non si versa in un giudizio di revisione e i giudici del dibattimento fondano il proprio giudizio su elementi di prova concreti. Al momento eventuali ipotesi, puramente astratte, relative all’esistenza di vittime non identificate vanno correttamente rappresentate ad una autorità inquirente”. Un concetto espresso nel respingere la richiesta della difesa di Cavallini di chiamare a testimoniare Silvana Ancillotti, l’amica di Maria Fresu che sopravvisse all’attentato. Il presidente aveva invitato quindi chi è convinto che tra le vittime della strage ce ne sia una mai identificata, quindi una 86esima, ad andare in Procura per chiedere che si indaghi su questa ipotesi. Su eventuali inquinamenti delle prove, la corte ha ricordato che “l’immediato contesto post-strage era uno scenario apocalittico”, fatto di “una mescolanza di corpi e macerie”, dunque “sarebbe stato impossibile individuare e selezionare un corpo da far sparire”, e “in via logica non è ragionevole ipotizzare l’organizzazione di un inquinamento delle prove estemporaneo e immediato a seguito di un evento del tutto accidentale e quindi non assolutamente preventivato”.

La perizia chimica e l’ordigno di origine bellica – La conclusione sulla perizia chimica è che l’esplosivo utilizzato è “sicuramente” di origine bellica, frutto dello scaricamento di munizionamento militare. Per i periti, Danilo Coppe e Adolfo Gregori, “chi disponeva di detti materiali poteva disporre ed utilizzare anche cariche di lancio ad integrazione di quelle più potenti”. Una conclusione che si discosta da altre conclusioni sull’esplosione con l’impiego di esplosivo-gelatina per uso civile. Per i periti essendo “evidente” nel materiale analizzato la presenza di Tnt e Rdx, oltre alla dinamite gelatina, per l’esplosivo usato a Bologna la scelta cade o sul Compound B o meno probabilmente sulla Tritolite. Il primo di provenienza Usa, il secondo europea. Visto il ritrovamento di cariche di lancio, l’origine del Compound B potrebbe derivare da ‘colpo da cannone navale da 5″/38 con peso carica di circa 1,8 kg oppure da ‘colpo da artiglieria da 155 con peso carica di circa 6.9 kg’.

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